CRESCERE NEL NUOVO MILLENNIO: UN PERCORSO ACCIDENTATO (prima parte)

di SIMONETTA BISI ♦

 Quando si parla del percorso di crescita dall’infanzia all’età adulta, non si può evitare di partire da una parola: Famiglia.

Famiglia: un concetto aperto, non suscettibile di una definizione unica e universale. Un concetto che appartiene a tutti, perché ci segue nel percorso della vita, non ha un’unica forma, si muove con noi, cambia con noi, e anche noi mutiamo: passiamo da una famiglia a un’altra, e forse a un’altra ancora, passaggi che lasciano il segno, su noi stessi, e sugli altri.  Ogni famiglia richiama storie e dinamiche differenti perché, qualsiasi ne sia la “forma”, essa è un contenitore di persone che per amore, per legami di sangue o per legge, vivono l’una con l’altra strette e stabili relazioni, per un tempo la cui durata – oggi – è incerta, mai preventivabile. L’ambivalenza dei sentimenti che ci legano al focolare domestico è certamente una condizione universale, ma in certe situazioni lo è più che in altre, in certi periodi storici più che in altri.

Se guardiamo alla storia dell’uomo, ci accorgiamo facilmente che la famiglia come noi la intendiamo è una costruzione sociale: è la società che, con il suo apparato di regole e di norme socialmente stabilite, dà forma al concetto, fissandone i contorni e regolandone le proprietà. È la società che regolamenta i rapporti tra i componenti della famiglia decretandone diritti e doveri, creando vincoli, distribuendo poteri e alimentando stigmi, distinguendo tra ciò che è ritenuto “degno” e ciò che non lo è.

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Questo è avvenuto e avviene da sempre, perché nella definizione di famiglia entrano visioni politiche, economiche, religiose e legali. E così come mutano politica, economia, diritto e morale, anche la famiglia si è andata adeguando sia da un punto di vista formale, sia da un punto di vista sostanziale, cioè come funzioni che essa è chiamata ad assolvere. La famiglia cambia, e il suo mutamento va di pari passo con le trasformazioni socio economiche e culturali della società.

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E la famiglia è cambiata. I rapporti tra i coniugi sono andati modificandosi: più autonomi dal partner, si tende a privilegiare i personali bisogni di affermazione. La raggiunta uguaglianza nell’accesso agli studi di ragazze e ragazze, il miglior controllo sulla procreazione, un diverso status delle donne nella famiglia, hanno contribuito a non fare del matrimonio e della maternità l’unica aspirazione femminile. Questi cambiamenti si riflettono anche sui figli: oggetto di desiderio per donne in età quasi matura, spesso rimangono figli unici, ai quali viene offerto un ambiente accogliente, scarsamente responsabilizzante, ampiamente permissivo.

Il matrimonio come istituzione non è progredito con la stessa velocità con cui si è sviluppato lo spirito soggettivo dei coniugi, con riflessi sociali marcati sia nei rapporti intrafamiliari, sia nelle modalità con cui si fa famiglia.

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Se pensiamo alla situazione reale, potremmo guardare alle cosiddette nuove famiglie come al segnale della ricerca, ancora oggi fortemente presente, di un autentico rapporto di coppia, base prima per un autentico rapporto di genitorialità. Questi sentimenti rappresentano ancora qualcosa di vitale e di così irrinunciabile da indurre a sperimentare nuovi modelli di investimento affettivo, nuovi rapporti dopo il fallimento dei precedenti, nuovi ruoli di genitorialità. È un tentativo che le statistiche ci indicano come non riuscito: le difficoltà e i naufragi sono frequenti. Sono aumentate le unioni libere ma anche l’instabilità coniugale.  L’Istat registra da tempo il progressivo aumento dei singoli, tecnicamente rilevati come famiglie unipersonali, delle famiglie monogenitore, spesso successive a separazioni e divorzi, delle coppie di fatto e delle famiglie ricostruite.

Questo perché la “famiglia immaginata”, quella rassicurante, basata sulla solidarietà e sulla comunicazione, aperta all’altro e non chiusa nella sua monade, è distante, molto distante da una società che propone, e ne fa miti sociali, competitività, danaro e consumo. Quando il sociale non fornisce agli individui appigli sicuri che rendano in grado di ri-creare nella realtà familiare quel mondo immaginato, quel mondo desiderato ma di cui nessuno ci fornisce strumenti idonei a trasporlo nella realtà, è facile la disillusione, è facile il naufragio.

Quanto influenza, per esempio, la competitività, nelle relazioni familiari? E il danaro, chiave essenziale per poter poi consumare?

Non è facile vivere in una società che promuove l’equazione ben-essere uguale benessere economico, quasi che una situazione di agiatezza implichi, per definizione, una vita familiare felice, e proficua, per quanto riguarda sia il rapporto tra i coniugi sia l’aspetto pedagogico ed educativo. E nello stesso tempo si rafforza un altro e opposto stereotipo: povertà uguale devianza probabile. Uno stereotipo che sancisce l’impossibilità, o quasi, di rapporti dignitosi e armoniosi all’interno di una famiglia a basso reddito, creando delle disuguaglianze che troppo spesso si riflettono negativamente sui figli delle famiglie meno agiate, o meno orientate al consumo.

Pensare di immunizzarsi da derive familiari in virtù del conto in banca, non solo è un’illusione, ma è un’illusione fra le più nocive e pericolose, poiché distoglie dalla ricerca dei soli strumenti che in qualche modo, e per davvero, potrebbero venirci in soccorso. Strumenti necessari, anzi: insostituibili, a cominciare dal primo e più ovvio, ma non per questo riconosciuto e tanto meno coltivato: lo strumento della presa di coscienza, cioè della presa d’atto della rilevanza delle responsabilità non materiali sia nei rapporti coniugali che, in misura maggiore, in quelli con i figli.

Svuotata di qualsiasi elemento valoriale, sempre più ridotta a puro simbolo, una sorta di amuleto per fronteggiare i nostri disagi e dare un senso alle nostre azioni, la famiglia, questa entità concettuale investita del rilevante ruolo di formare le nuove generazioni, si è adeguata ai tempi, e mantiene vitali solo gli imperativi dominanti: consumismo, soddisfazione immediata dei desideri di ognuno, individualismo, prevaricazione, esteriorità.

Questi imperativi investono anche i modelli educativi dei figli, spesso destinati a restare figli unici, “bambini-re”, ai quali viene offerto un ambiente accogliente, scarsamente responsabilizzante, ampiamente permissivo. E l’infanzia, oggi, domina la pubblicità di abbigliamento e in genere di prodotti per i piccoli, presto resi edotti dagli spot in tivvù nelle ore pomeridiane, fascia d’ascolto più frequentata da giovani consumatori, dei pregi di scarpette colorate e lucenti, dai costi proibitivi.  Oggi fa concorrenza alla tv il telefonino, che i bambini imparano velocemente a smanettare.

Si sta realizzando un vero e proprio mutamento dell’adolescenza, un’altra parola che oggi decliniamo al plurale per indicare una rivoluzione nelle tappe che da sempre hanno definito il passaggio dall’infanzia all’età adulta, cioè all’età delle assunzioni di responsabilità e della definizione della propria identità. Oggi – ed ecco il nuovo – registriamo un anticipo delle caratteristiche proprie del processo adolescenziale: bambine truccate, con monili preziosi e abiti da grande, maschietti arroganti e violenti, come ci dicono i dati sul bullismo, oramai presente, e diffuso, già nella prima elementare. L’adolescenza, poi, si propaga in modo ingenuo e invade gli altri periodi della vita, e così assistiamo da una parte ad adolescenze premature e dall’altra all’impossibilità di chiudere questo periodo della propria vita.

Non possiamo meravigliarci troppo: i modelli sociali negativi sono entrati nelle famiglie, la televisione è la nuova baby sitter, e Internet la realtà virtuale dei più grandi ma anche degli adulti-genitori. Nel mutato contesto familiare vengono a mancare ai figli quelle esperienze emotive e quei modelli di vita adeguati all’età, i tempi e gli spazi dei rapporti vanno sempre più restringendosi, le figure genitoriali non sono più i referenti. Psicologi e psicanalisti possono confermare l’estendersi di figure genitoriali atipiche: il genitore “eterno adolescente”, il genitore che si propone come “amico o amica del cuore” o che addirittura cerca appoggio e sostegno nel figlio.  Si stabiliscono così relazioni caratterizzate da una confusione nei ruoli, che, negando le differenze generazionali, diventano carenti affettivamente e, di conseguenza, produttrici di aggressività.

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È cambiata profondamente la cultura affettiva in famiglie caratterizzate dalla mancanza di autorevolezza, di regolazione e contenimento degli impulsi, e dall’incapacità di trasmettere valori. Quando le persone vivono soprattutto in funzione del proprio lavoro, quando trascorrono il poco tempo libero pensando solo a se stesse, come possono essere in grado di ascoltare l’altro, come possono, con la continuità necessaria, approfondire la conoscenza dell’uno con gli altri, almeno nell’ambito della propria famiglia?

Responsabilità dei genitori, si è detto, ma è proprio alla fine della cosiddetta socializzazione primaria che le responsabilità si trasferiscono, in gran parte, all’esterno. È, infatti, compito della scuola, ma anche della società nel suo insieme, e nelle sue manifestazioni, trasmettere quei referenti normativi che dovrebbero costituire per i giovani le basi per una legittimazione dell’agire sociale.

Cosa trasmettiamo ai giovani? Da un lato, un’idea di società che offre diversi modelli di vita tra cui scegliere, che afferma il primato del soggetto, l’autonomia individuale, l’autorealizzazione, il rispetto per la diversità, enfatizza il presente a scapito della progettualità per il futuro. Dall’altro, si propone la centralità della riuscita professionale, del successo economico, della competitività, tutto ciò da realizzare in un mondo del lavoro instabile che, al contrario, comunica l’impressione che quasi niente sia possibile, come è confermato dall’aumento delle ineguaglianze e dell’esclusione sociale.

La lenta, strisciante ma inesorabile penetrazione nella nostra società dei valori economici, ha assunto una invadenza che si è riflessa in ogni ambito e in ogni rapporto, fiaccando le relazioni tra gli esseri umani e promuovendo un novo valore: la competizione, e non tanto per la soddisfazione di vedere riconosciute le proprie capacità, quanto in vista della conquista di redditi sempre più alti.

Queste contraddizioni, in una fase delicata come quella dell’adolescenza, provocano un senso di dissociazione tra l’identità personale e il sistema sociale, e alimentano sentimenti di inadeguatezza e la preoccupazione, il timore di essere ridotto a “insignificante sociale” (A. Franssen 2003).

SIMONETTA BISI