Richetta

di GIULIO BIZZAGLIA ♦

Non ho avuto bisogno di sforzare la memoria, un paio di anni fa, quando, camminando per via di Torrevecchia, ho incontrato Richetta. In un baleno ho riconosciuto, in quella figura un po’ appesantita, un po’ ingrigita, la stessa persona che, durante un periodo abbastanza lungo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, vedevo quasi ogni giorno. Le stesse movenze, la stessa aria, la stessa leggerezza nell’incedere con passo espressivo, leggero, riservato. La medesima leggera pinguedine.

Vedevo Richetta quando tornava a casa, dopo aver servito per tutto il giorno a casa dei “signori” (avvocati, dottori, ricchi commercianti? Mai saputo). Risaliva in periferia dal centro città con il 49 – o forse era ancora l’H, prima denominazione di quell’enorme traballante parallelepipedo verde con le ruote che collegava (lentamente, molto lentamente) questo pezzo di periferia nord-ovest alla città, a “Roma”. Quando scendeva dall’autobus sgangherato (a Roma gli autobus sono sempre stati sgangherati, per antonomasia) potevano essere le sei di pomeriggio, forse le sette. Quando si fermava, l’autobus – o semplicemente l’”auto”, come dicevano e dicono molti – sbuffava come può fare un bue, esausto dopo una giornata a tirare l’aratro. Lo sbuffo sembrava incoraggiare sonoramente i passeggeri a uscire dall’autobus, ormai impaziente di raggiungere il prossimo capolinea. Infatti a quella fermata non saliva quasi mai nessuno.

Curioso, ancora oggi gli autobus (gli auti!) di Roma sono assai malconci, come se quarant’anni e più fossero passati per niente. Recentemente ho notato che alcuni, quando curvano, perdono gasolio dal bocchettone del serbatoio malamente chiuso; allora la strada si lucida di un nero oleoso, e chi ci passa sopra con lo scooter finisce a terra. Esattamente come allora. Ci sarà mica una volontà perversa tesa a offrire programmaticamente, per scelta, un pessimo servizio di trasporto pubblico alla cittadinanza? Non è dato saperlo.

Lo sguardo di Richetta denunciava mansuetudine, timidezza, quasi rassegnazione, ma anche consapevolezza. Manifestava una profonda melanconia. Uno sguardo da Isacco, da agnello sacrificale, sottolineato dal profilo del naso che, curvo, scendeva verso la bocca. Alcune volte l’ho incrociato, quello sguardo, e quando è successo ho avuto la sensazione che in modo fugace, di sottecchi e timidamente, cercasse il mio. Meno di un secondo, soltanto un attimo durava quello scambio di sguardi: per me quanto bastava per ricavarne una sensazione di rispetto, di educato rapporto con tutti, con il mondo, malgrado – immaginavo – una esistenza modesta e faticosa, frugale, non certo ricca. Però dignitosa; forse molto solitaria.

Nel suo camminare mai un cenno fuori posto, mai una smorfia, sempre il viso composto, il passo pudico, appena sinuoso, a suo modo elegante. Teneva lo sguardo basso, come cercasse appoggio sicuro ai suoi passi; a tratti rialzava la testa come a riallacciare un legame con la realtà attraversata, quasi in punta di piedi. Richetta traversava la strada principale e risaliva via Roncati con passo regolare, tenendo sempre due gonfie cartelle nere da professionista, come fossero un bilico d’altri tempi. Ho sempre immaginato che quelle cartelle venissero usate per stipare la spesa, camuffata quindi da pratiche, da carte. Un contenuto improprio per un contenitore assai connotato ma usato come fosse un sacchetto della spesa in plastica. Magari però confondo un po’ le cose: a pensarci bene si poteva trattare di una borsa – gonfia – e di un sacchetto in plastica dal quale spuntavano ortaggi, pane, incarti diversi.

Aveva capelli neri, lisci, lucidi e ben ravviati, con la scriminatura come usava allora per riordinarli, per dargli un verso. Non come adesso che pare si divertano tutti, giovanotti e barbieri, a coltivare cespugli scolpendoli nelle fogge più estrose, oppure a radiarli dal cranio per avere il beneficio dell’effetto boccia che sembra conferire identità interessanti, in particolare per le fanciulle delle diverse periferie. Pantaloni a vita alta e cardigan, scuri, costituivano la divisa abituale di Richetta; scura era anche la maglia tipo lupetto che indossava spesso. Bruno olivastro il colore della pelle, come pure quello degli occhi.

Sembrava non sentire i richiami poco riguardosi (Richetta?! Richetta?!) pronunciati a mezza bocca che provenivano dal crocchio di noi giovani, più ignoranti che maldisposti, fermi davanti al bar d’angolo a scialacquare il tempo, in attesa che si facesse sera per andare a cena. Richetta tirava dritto, verso casa sua, giù nella “Valle”. Per capirla nella sua dimensione territoriale, la Valle, bisogna conoscere la parte nord ovest di Roma, territorio che si può leggere come una cipolla dagli strati diversi. In quello spicchio di città, la parte adiacente a Roma centro è la semiperiferica Balduina; lasciandola alle spalle, prima si attraversa la Valle dell’Inferno, poi si riemerge sulla Pineta Sacchetti, su una linea parallela al quartiere appena citato, ed è periferia; altra vallata, meno pronunciata della precedente, altra linea abitata, e siamo nella periferia vera, Primavalle-Torrevecchia. (Tanto per avere contezza delle percezioni relative che conformano la toponomastica condivisa: allora si diceva, scendendo in centro, “vado a Roma; andiamo a Roma”.)

Ma non basta, perché dopo Torrevecchia c’era la “Valle”, una depressione del suolo compresa tra via di Torrevecchia e Santa Maria della Pietà, che prosegue per un paio di chilometri e oltre fino a morire nell’incontro con via Boccea, avendo ospitato nella sua parte finale le case ex Bastogi, un concentrato di abbandono che levati.

Alla prima parte della Valle, quella d’interesse, si accede o da un capo con una strada (via Lombroso), o dal centro scendendo a piedi una scalinata piuttosto pronunciata: quella usata anche da Richetta, che nella Valle abitava. Ecco servita una bella stratificazione sociale basata sull’abitazione e sull’abitato, leggibile come un libro aperto nel parallelo sviluppo edilizio. Sì, perché le case della Balduina-quartiere-bene, borghese, sono state costruite da muratori e manovali che in contemporanea (anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso) hanno auto-costruito, in economia massima, le loro case. Speculative quelle, abusive queste; e abusivi chi le abitava (non so se gli altri fossero tutti speculatori). E gli ultimi tra questi hanno costruito nella Valle. Case anche di diversi piani, accomunate dal disegno assente o, al più, geometrico, ortogonale, e dal povero materiale usato quasi sempre: economici blocchetti di tufo.

E noi, testimoni ingenui fino alle più estreme conseguenze, abitando a Torrevecchia-di-sopra guardavamo chi abitava in Valle con aria di superiorità. Poca roba, beninteso, atteggiamenti senza malvagità, però… Poveretti, noi.

Ciò detto, tutto il resto che so di Richetta è riflesso, orecchiato, immaginato. È poco.

Si diceva fosse molto capace sul lavoro, oggetto della massima stima e considerazione in ragione delle sue ottime capacità di gestire la casa: la casa dei “signori”, beninteso, anche se si favoleggiava su come e quanto fosse ordinata e graziosa, la sua. Si diceva che trovasse in questa considerazione motivo di appagamento, forse di orgoglio.

Chissà quale effetto provocava, su Richetta, quel richiamo sommesso, dal tono tra l’esclamativo e l’interrogativo: “Richetta?!” che si levava talvolta, al suo passaggio, da noi poveri borgatarelli. Mi piace pensare che magari, constatata nel tempo la sostanziale leggerezza del tutto, Richetta si compiacesse, addirittura, dell’interpello al femminile.

Perché Richetta, per l’anagrafe, in verità era un uomo, era Enrico. Un uomo, vestito da uomo che viveva, molto discretamente, come si sentiva di essere: come una donna. E allora sentirsi interpellato come fosse una donna, chissà, magari poteva persino fargli piacere.

Ho sempre sperato che sia andata così, perché se invece così non fosse stato, a ogni ricordo di lui (lei?) affiorante da quel tempo lontano, ci sarebbe da provare vergogna, appena temperata dall’invidia per la dignità che sempre lo vestiva, come un elegante completo scuro. Una dignità molto femminile.

GIULIO BIZZAGLIA

“persone e circostanze narrate non hanno alcuna attinenza con la realtà”