Il cuore (che non sapevo di avere)

di GIULIO BIZZAGLIA 

Se dovesse capitarmi ancora di avere un infarto (un infarto!), non proverei meraviglia. Neanche rabbia, disperazione, sconforto. Niente. Almeno credo. Perché quando è successo, ed era settembre 2015, mi sono meravigliato a sufficienza, arrabbiato un poco, però disperato mai. In realtà resta un po’ di sconforto, che ho provato e che so potrebbe riaffacciarsi. Lo sconforto è uno stato d’animo che si riserva relativamente a diverse momenti cruciali nella nostra esistenza: quelli in cui torniamo monadi, appesi alla nostra storia, soli con noi stessi. Con i nostri successi, con il nostro essere riusciti a fare almeno qualcosa di quanto atteso, da noi stessi per primi; più spesso con i nostri vuoti, con i buchi che si sono aperti e che non siamo riusciti (ancora?) a colmare. Con i nostri fallimenti.

Momenti brevi, in qualche modo catartici, direi quasi necessari ad espellere le tossine che ci si stratificano addosso e dentro, giorno per giorno, silenziosamente. Fino a che – le tossine – non pretendono di essere considerate, cosa che succede in quei particolari momenti. E allora sconforto, constatazione subitanea di quanto spesso si sia lontani (più raramente vicini) dalla riuscita, dall’affetto, dal riconoscimento. Dal senso.

Poi passa – vai a sapere se perché hai buone risorse o semplicemente perché emuli Peter Pan, quindi non hai ancora (ancora?) capito un tubo. Poi ti rimetti in piedi e fai di nuovo finta di non sapere che, sostanzialmente, siamo soli; come cantava Faber: “quando si muore, si muore soli” (anche se si è vissuto insieme ad altri, aggiungo io, scusandomi per l’accostamento sacrilego).

Sì, ma, il cuore? Il cuore è lì che soffia, tiene e sostiene, palpita, starnazza. Batte. Batte i tempi della vita, li scandisce e li sottolinea nelle sue dissonanze: palpiti, tuffi, colpi anomali (sempre più frequenti, con l’età), accelerazioni e rallentamenti. Fino a che, un giorno, un tratto della rete che lo nutre s’intasa (le tossine di prima), le cose precipitano e, se si è fortunati, si diventa cardiopatici. Se non lo si è, fortunati, fine della storia.

Sono stato fortunato, ma da quell’accadimento sono diventato un cardiopatico, vale a dire uno che sarà sempre malato di cuore. Ecco, è la perentorietà, l’irreversibilità del fatto che mi secca assai. Mi pare una prepotenza, un qualcosa che non ho cercato, che mi è capitato – come capita di prendere una storta, per dire – rispetto al quale non ho alcuna possibilità di riparare, di tornare allo stato ex ante. Questa irreversibilità scandisce una volta per tutte – ce ne fosse bisogno – una verità inoppugnabile, ovvero la coscienza (la “notizia”?) d’essere anziano. Anziano, invecchiato, proiettato nella Terza Età (ci sarà mai una Quarta Età?), appartenente alla folta schiera di quelli che hanno esaurito le scorte di “non ancora” e hanno in magazzino soltanto “non più”, in misura ogni giorno crescente.

Mi dico, mi si dice: Allora? Ma non rompere, ma che vuoi? Che pretendi, che per gli altri valga e per te no? Solo perché magari dimostri dieci anni di meno?

No, non ho affatto intenzione di mollare, di abbandonarmi al lamento. C’è tanto da fare, da sentire, da vedere; da provare. Tante buche da riempire, tanti fogli da scrivere, tanto amore da dare e magari da ricevere; qualche scusa da porgere.

Sì, se dovessi avere ancora un infarto, non proverei meraviglia. Intanto mi muoverò con più attenzione, con diligenza, da bravo soldatino obbediente alle indicazioni dei medici, ma anche alle mie. Quindi cardiopatico ma camminante, operativo, attivo, come se fossi sano. No, come se… perché sarò, anzi, sono già, come mi sento di essere: sano & cardiopatico: in fondo sono solo parole che descrivono convenzionalmente qualcosa. Il mio stato, il mio essere quel che sono oggi, il mio sentirmi in cerca di equilibrio, lo conosco io, soltanto io. Anzi, lo conosce il mio cuore, quello che non sapevo di avere.

GIULIO BIZZAGLIA