POPULISMO E POPULISTI (VI)

di NICOLA R. PORRO 

La sinistra e il disincanto

Il profilo socio-demografico della sinistra in libera uscita elettorale è stato abbozzato, ma non approfondito, nel precedente articolo (Populismo e populisti V). Cerco di rimediare. Un primo segmento del potenziale blocco sociale della sinistra è quello dei nuovi poveri in condizione lavorativa. Sono i working poors descritti dalla sociologia anglosassone a indicare l’esercito dei precari, dei sottoccupati, dei dipendenti part-time. Privi di garanzie lavorative, dispongono di redditi modesti e spesso aleatori. Ancor più importante: non nutrono concrete aspettative di promozione sociale. A questo esercito dilatato da due decenni di crisi e mortificato dalle trasformazioni postindustriali del lavoro sono estranei gli antichi legami di solidarietà, la fidelizzazione ideologica e quel sentimento di appartenere a una comunità di destini che connotava la classe operaia di fabbrica. Il suo potere di mobilitazione e di protesta è quasi inesistente, come ci ricorda una sentenza emessa nell’aprile 2018 dal Tribunale del lavoro di Torino. Sei rider – i ragazzi che recapitano a domicilio vivande confezionate -, rei di di aver partecipato due anni prima a una mobilitazione per un più equo trattamento economico e normativo, avevano impugnato il licenziamento senza preavviso da parte della società tedesca di food delivery Foodora. La sentenza loro avversa ha fissato il principio che i rider sono collaboratori autonomi, non legati da alcun rapporto di lavoro subordinato con l’azienda. Una vertenza sindacale minore ha portato così alla luce l’estraneità non solo sociale e culturale, ma persino legale e normativa, dei working poors rispetto alla condizione del lavoratore dipendente. È in questa estraneità che si consuma il divorzio dalle sinistre storiche di una classe lavoratrice atipica ma in continua espansione. E viene meno anche quella narrazione politico-culturale – l’unità della classe lavoratrice, il ruolo di unificazione e direzione dei partiti operai – che aveva alimentato per oltre un secolo il patto sociale fra i ceti subalterni e le socialdemocrazie europee. Come meravigliarsi se questi segmenti di elettorato si rifugiano nell’astensionismo o in comportamenti elettorali sempre meno prevedibili?

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Anche l’area tradizionale dei lavoratori industriali (il vecchio “proletariato di fabbrica”) ha conosciuto una metamorfosi significativa. Per effetto dell’automazione e delle nuove tecnologie, che hanno modificato la classica divisione del lavoro, si è contratta demograficamente e si è segmentata socialmente. Ha perso capitale sociale e status economico, e con essi si sono erosi quelle fedeltà ideali e quel patrimonio simbolico che per tutta la durata del Novecento avevano connotato il movimento dei lavoratori.

Alcuni studiosi sostengono perciò che il divorzio fra sinistra e classe lavoratrice rappresenti non tanto una conseguenza delle recenti politiche di austerity (la crisi elettorale della sinistra storica si è manifestata anche in Paesi risparmiati da programmi recessivi) quanto piuttosto un effetto di ritorno dell’onda lunga della globalizzazione e della rivoluzione postindustriale. I ceti lavorativi più esposti alla concorrenza dei Paesi emergenti e alle conseguenze dell’immigrazione avrebbero progressivamente spostato il proprio consenso alle forze sovraniste, scambiando per così dire l’effetto con la causa. Nell’illusione – alimentata dalla demagogia delle nuove destre – che, a fronte dell’obiettiva difficoltà a governare processi epocali nuovi e complessi, la risposta potesse consistere semplicemente nel sottrarsi alla sfida della globalizzazione. Usando la forza contro i più deboli (i migranti) e invocando autolesionistiche politiche di protezionismo commerciale contro la concorrenza di Paesi più economicamente competitivi.

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Il disincanto politico della classe lavoratrice avrebbe origine in una sorta di smarrimento, dilagante soprattutto fra i giovani operai e riscontrabile in tutti i Paesi dell’Europa occidentale. L’Italia del doppio populismo emersa dal voto di marzo si inscrive in questo panorama. Quasi la metà dei voti validi espressi si è orientato verso forze la cui propaganda aveva attinto contemporaneamente alle retoriche anti-élite e antipartitiche della cittadinanza (versione M5S) e a quelle sovranistiche della Nazione invasa (la Lega formato Salvini). Alle quali una sinistra impaurita e divisa non ha saputo contrapporre ragioni convincenti, che rivendicassero e insieme rinnovassero il proprio patrimonio di idee e di valori. La sinistra italiana – che da Gramsci in poi aveva rappresentato una fonte di ispirazione per tutti i movimenti progressisti – si è come ripiegata su se stessa, incapace di rispondere alla sfida dei populismi.

Le sinistre di governo, non solo in Italia, hanno certamente pagato l’impatto della crisi, il rigore dei vincoli finanziari, la restrizione coatta  delle risorse pubbliche. Ciò ha probabilmente evitato che la crisi travolgesse le economie più fragili innescando conseguenze sociali devastanti. Ma l’assenza di una visione e di un disegno condiviso ha appannato i meriti delle politiche comunitarie (in primis della Bce) ed enfatizzato le criticità: politiche di austerità non sempre lungimiranti, la riproposizione di gerarchie di potere asimmetriche fra i partner, l’affievolimento della solidarietà sovranazionale. La secessione britannica, la marea sovranista e addirittura xenofoba nei Paesi dell’Est, la crisi di governabilità che ha investito gli stessi Stati leader, costituiscono l’altra faccia di politiche concepite per fronteggiare l’emergenza senza che prendesse contemporaneamente forma una strategia condivisa capace di ridefinire paradigmi economici e modello sociale.

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A partire dagli anni Novanta, e con accelerazione crescente nel ventennio successivo, crescerà invece in seno alla sinistra il protagonismo della terza componente. Rappresentativa di un ceto medio professionale, incline a riconoscersi in una visione liberal, insofferente di vincoli organizzativi e attenta soprattutto ai diritti civili, all’ambiente, alla qualità della vita. Un attore sociale fondamentale che sarebbe puerile associare all’imborghesimento della vecchia sinistra di classe. Spesso però materialmente e culturalmente distante dagli interstizi sociali del disagio, dove i nuovi poveri sperimentavano la paura di precipitare in fondo alla piramide sociale, diventando più facilmente preda di campagne identitarie e xenofobe. La sinistra del Duemila sconta forse quella mutazione antropologica che secondo Alberto Asor Rosa (“La crisi della sinistra. Il popolo si è dissolto nella massa”, in Repubblica, 6 aprile 2018) segnala il declino dell’idea stesso di popolo e il suo progressivo degradare nella categoria cangiante, sfuggente e politicamente amorfa di massa. Non diverso l’approccio di Roberto Tamborini (“La geometria della sconfitta”, rivista online Menabò di Etica ed Economia) che si sforza di indagare la crescente incapacità della socialdemocrazia europea di capire ed affrontare i problemi più rilevanti che si sono succeduti nell’ultimo ventennio. Sulla stessa linea, Fabrizio Barca e Alessandro Gilioli (“Rivoluzione o estinzione”, L’Espresso dell’8 aprile 2018) individuano il nocciolo della questione nel venir meno della capacità da parte delle sinistre del Duemila di tenere insieme “gli ultimi, i penultimi e i vulnerabili” delle società di massa.

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I dati elettorali, del resto, sono impietosi. Secondo la ricerca di Youtrend, curata da Matteo Cavallaro, Lorenzo Pregliasco e Giovanni Diamanti (La nuova Italia, Castelvecchi) gli italiani in cerca di occupazione o disoccupati avrebbero votato solo per il 9% Pd e per il 6 LeU. Ben il 47% avrebbe optato per il Movimento 5 Stelle e il 18 per cento per la Lega. Tra i dipendenti del pubblico impiego il 19 per cento avrebbe scelto il Pd, il 6 LeU, il 27 il M5S. Dati simili, e anzi più netti, per i dipendenti del settore privato. Il Pd, che in quattro anni ha perso per strada metà del proprio elettorato, mantiene il primato delle preferenze solo fra i pensionati. Il calo è abbastanza omogeneo fra i gruppi sociali, ma più accentuato fra quei dipendenti pubblici che dalla fine degli anni Novanta avevano rappresentato la componente fondamentale del “tridente” che componeva il blocco sociale della sinistra (pensionati, dipendenti del settore privato e dipendenti del settore pubblico). A contrarsi sono le due componenti attive nel mercato del lavoro, mentre le perdite risultano contenute fra imprenditori e lavoratori autonomi. Sullo sfondo l’erosione dell’insediamento territoriale storico della sinistra che ha reso espugnabili anche le antiche zone rosse.

Il rovinoso epilogo del renziano “Partito della Nazione” – una forza interclassista, culturalmente eclettica, capace di un’offerta elettorale pigliatutto – si traduce in una specie di beffardo inveramento del progetto. La composizione sociale degli elettori Pd del 2018 è proprio quella di un Partito della Nazione, ma in formato bonsai, costruito per sottrazione di forze antiche e non per addizione di forze nuove.

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Bisogna però rinunciare alla tentazione-scorciatoia di esaurire l’analisi della sconfitta addebitandola per intero alla leadership di Renzi e alla filosofia del renzismo. Il caso italiano riflette infatti dinamiche specifiche ma riproduce anche tendenze vistosamente presenti a scala continentale. Le analisi tecnicamente più accurate e metodologicamente più sofisticate che si stanno producendo sul voto politico (si veda, ad esempio, A. Del Monte, S. Moccia, L. Pennacchio, “Disuguaglianze e immigrazione spiegano il voto di marzo”, lavoce.info del 13.04.2018) mostrano la quasi perfetta coincidenza fra voto italiano alle forze populiste e tendenze registrate in altri contesti nazionali affini. Ovunque una massiccia presenza di popolazione immigrata spinge a un voto “securitario” (il nostro centrodestra a trazione leghista) mentre un elevato tasso di disoccupazione gonfia le vele di partiti simili al nostro Movimento 5 stelle. Il collante della rabbia sociale è ovunque un mix di insofferenza verso gli immigrati (capro espiatorio del malessere), di ostilità nei confronti delle élite e di disaffezione nei confronti delle istituzioni intermedie.

I voti del centro-destra sono del resto significativamente correlati con la percentuale di immigrati e con il no al referendum 2016, mentre hanno un legame inverso con il livello di disoccupazione e la percentuale dei laureati. Il Movimento 5 stelle avanza, al contrario, in presenza di forte disoccupazione, soprattutto intellettuale (alta percentuale di laureati disoccupati), mentre arranca dove la qualità delle istituzioni è maggiore. La questione migratoria e la scelta referendaria influenzano poco il sostegno al Movimento, mentre cresce fra i docenti, ceto intellettuale mal retribuito e critico verso la Buona Scuola.

Il Pd ottiene più consensi dove le amministrazioni locali conservano livelli di efficienza accettabili e regge soprattutto nelle aree territoriali dove più elevata era stata la percentuale di consensi al referendum costituzionale del 2016, intercettando però appena la metà dei  al referendum del 2016.

Importante è il dato che segnala la relazione fra voto e qualità delle prestazioni istituzionali locali. Il centro-sinistra, forza maggioritaria di governo locale, ha pagato a caro prezzo la contrazione della spesa pubblica senza offrire una risposta credibile alla domanda di protezione sociale generata dalla crisi. Esattamente come in altri Paesi europei, anche in Italia il populismo in ogni sua variante è meno competitivo dove sono attive misure contro la disuguaglianza e il disagio sociale e dove le prestazioni pubbliche (sanità, istruzione, trasporti) risultano più adeguate.

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Le comparazioni a raggio continentale sembrano confermare le osservazioni di Thomas Piketty, l’economista francese autore del fortunato e discusso Il capitale nel XXI secolo (Bompiani 2014). La tesi è quella di una radicale trasformazione sociologica e culturale dell’elettorato di sinistra  nell’intera Europa. Lo scenario politico sarebbe dominato da due grandi forze in competizione: quella che chiama ironicamente la sinistra bramina e quella che definisce la destra dei mercanti (Th. Piketty, “Brahmin Left vs Merchant Right: Rising Inequality and the Changing Structure of Political Conflict”, accessibile sul sito www.piketty.pse.ens.fr.). È una lettura di ampio respiro, statisticamente documentata e critica verso interpretazioni riduzionistiche del voto nei maggiori Paesi della Ue.  Una stimolante provocazione di cui ci occuperemo nel prossimo appuntamento.

NICOLA R. PORRO