POPULISMO E POPULISTI (I)

di NICOLA R. PORRO ♦

Pellicole invecchiate e populismo digitale

Da qualche tempo coltivavo l’intenzione di proporre al blog una riflessione, possibilmente a più voci, sul populismo e i populisti. Distinguo fra l’uno e gli altri perché considero il primo una categoria da analizzare con gli strumenti della scienza politica e i secondi come i concreti attori storico-sociali di tale categoria. Al genotipo (populismo) corrispondono infatti numerosi e variegati fenotipi (i populismi e i populisti, appunto). Ciò rende problematico qualunque tentativo di proporre una definizione univoca e unificante di processi, identità e dinamiche molto differenziati e persino contraddittori. In tutte le loro forme, ad esempio, i populismi hanno diffidato delle ideologie, rendendo impossibile una definizione del loro profilo che discendesse da un qualche strutturato sistema di pensiero, come accade per il marxismo, l’anarchismo, il fascismo o lo stesso liberalismo. La generica definizione ombrello di populismo produce così una sorta di omologazione dei singoli casi e rende controverso anche un giudizio storico-politico sull’esperienza di quel tipo di regimi una volta pervenuti al potere. Governi classificabili alla grossa come “populisti” sono stati del resto sperimentati più volte, con alterne fortune, nel corso del Novecento. E hanno interessato molti Paesi, non solo e non necessariamente periferici o appartenenti all’area extraeuropea. In altre parole, il populismo non possiede una identificabile configurazione ideologica ma nemmeno è facile tracciarne i caratteri in base alla classica prova del budino rappresentata dalla pratica di governo. I loro fallimenti, tanti ed equamente distribuiti sull’intero orbe terracqueo, potranno perciò sempre essere addebitati a logiche esterne: le eredità del colonialismo, le congiure imperialistiche, la scomparsa di un leader carismatico, il boicottaggio della finanza internazionale, le trame dei nemici interni. Come extrema ratio, l’insuccesso potrà essere addebitato a un’infelice variazione genetica del cromosoma originario, per cui a tradire Perón sarebbero state le suggestioni del fascismo italiano mentre, specularmente, Chavez e Maduro, qualche decennio più tardi, avrebbero pagato l’influenza del comunismo cubano.

La tentazione sarebbe allora quella di proporre una prima distinzione fra populismi di pura testimonianza (l’archetipo potrebbe essere rappresentato dai narodniki russi del XIX secolo) e populismi di governo.  Gli esempi più significativi di questi ultimi sono rappresentati da quei regimi, spesso libertari nell’ispirazione ma sempre repressivi nel concreto esercizio dell’autorità statale, che hanno caratterizzato la quasi totalità dei sistemi politici latino-americani a partire dal 1810, quando ebbe inizio il collasso della potenza coloniale spagnola nelle Americhe. Nel corso del Novecento il peronismo argentino, per un verso, e il castrismo cubano, per l’altro, hanno rappresentato i principali paradigmi di un populismo capace di mescolare nazionalismo e antimperialismo, rivendicazione giustizialista e pulsioni rivoluzionarie, culto del leader e terzomondismo. Spesso, anche fuori del continente americano, governi populisti hanno interpretato istanze di modernizzazione autoritaria o cercato di orientare gli effetti sociali dei processi di decolonizzazione. Sarebbe interessante sviluppare un’analisi comparativa di queste variegate esperienze, ma il compito è vasto e ci porterebbe lontano dall’oggetto di questo contributo. È invece promettente adottare, nell’esame delle insorgenze populistiche contemporanee in Paesi di democrazia matura, una chiave di lettura che concentra l’attenzione non tanto sulla fenomenologia storica dei populismi quanto sui codici, sui linguaggi, sul rapporto istituito dai populisti con i sistemi della comunicazione sociale nei diversi contesti mediatici (radio, cinema, televisione, rete e adesso il sistema digitale) in cui hanno preso forma e con i quali hanno interagito.

 

È questa la tesi del sociologo e psicoanalista argentino Ernesto Laclau (2005), che invita a osservare il come piuttosto che il cosa dei movimenti populisti e a dedicare un’attenzione specifica alla figura dei loro leader. Questa rappresentazione fa emergere aspetti che sfuggono alla ruvida e asettica classificazione politologica, ma finisce per identificare la varietà e la complessità dei movimenti populisti con un solo possibile elemento unificante: il loro lessico. Si produce così un gioco linguistico in cui peraltro alcuni tratti ricorrono con impressionante frequenza. Fra questi è la cultura del sospetto, per cui il leader populista si accredita come tale in quanto è colui che svela le verità taciute alle masse dalla casta, talvolta anche a costo di sfidare la scienza, la logica e il comune buon senso. Questo ruolo esige una forte componente di teatralità e non è forse un caso che nell’esperienza italiana postbellica entrambe le figure eponime del populismo nazionale, il commediografo e giornalista Guglielmo Giannini, fondatore dell’Uomo Qualunque a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta, e il comico Beppe Grillo sessant’anni più tardi, provenissero dal mondo dello spettacolo. Lo statunitense Ross Perot e il leader del danese Partito del progresso, Mogens Glistrup, erano anch’essi personalità fortemente recitative, inclini all’iperbole da comizio e allergiche a ogni dimensione “intellettualistica” della politica. Cruciale nella retorica populista è la costruzione di un’opposizione fra noi e loro. Il “noi” non è più la classe o la nazione, come nel tradizionale repertorio delle ideologie europee novecentesche, bensì un indistinto popolo. Il “loro” è invece rappresentato dall’odiata e onnipotente casta, intesa non solo come la mefitica cupola del potere politico, ma anche come élite scientifica, economica, intellettuale, giornalistica che avrebbe come sola ragione sociale la preservazione dei propri privilegi attraverso l’occultamento e/o la manipolazione della verità. Il corollario di questa rappresentazione banalizzante del conflitto sociale è che all’opposizione destra-sinistra si sostituisce quella alto (dove abitano le caste)-basso (dove giace il popolo calpesto e deriso).

Si tratta di questioni che sarebbe pericoloso liquidare con il sarcasmo. Non c’è dubbio, infatti, che il nuovo populismo intercetti come un sensore la crisi dei vecchi paradigmi ideologici. Se la sinistra si ostina ad applicare all’universo sociale del XXI secolo le categorie interpretative plasmate per interpretare l’industrializzazione ottocentesca, e se la destra si illude di rispondere alle sfide della globalizzazione arroccandosi nella difesa isterica di quel che resta degli Stati nazione, si apre la strada a una a declinazione paranoica, socialmente interclassista e politicamente amorfa del conflitto. Il populismo è infatti per definizione estraneo non solo alla vecchia dialettica destra-sinistra, ma anche alla percezione di quel bipolarismo tendenziale che continua ad attraversare le società nel tempo della postmodernità e della globalizzazione. Un pensiero debole, privo di un baricentro ideale e convinto che le tecnologie della persuasione digitale possano surrogare la conoscenza e la stessa comunicazione sociale, non è materialmente in grado di elaborare una rappresentazione della complessità adeguata all’entità della sfida.

È perciò giusto denunciare senza indulgenze il degrado del discorso pubblico cui i populisti concorrono tramite il ricorso a tre strumenti canonici. Il primo è la demonizzazione dell’avversario, sistematicamente trasformato in nemico (la casta). Il secondo, conseguenza dell’altro ed esemplarmente rappresentato dal M5s italiano, è il rifiuto sprezzante di qualsiasi possibile alleanza per il governo con altre forze politiche. Posizione totalitaria nel senso letterale del termine, in quanto identificazione di se stessi con il tutto. Il terzo consiste nell’adozione della demagogia declamatoria come linguaggio dominante della comunicazione pubblica. È questa, vi si è già fatto cenno, l’interpretazione di Laclau che fa del populismo un sistema linguistico anziché un’ideologia o un modello organizzativo in senso proprio. Bisogna però aggiungere, per onestà intellettuale, che nessuno di questi apparati retorici, a volte vere e proprie narrazioni, è del tutto inedito o peculiare dei populismi contemporanei. Da oltre un secolo, con l’avvento del suffragio universale e dei partiti di massa, il linguaggio populista permea e attraversa, con intensità e stili diversi, l’intero spettro delle ideologie e delle forze politiche in competizione anche nelle più mature democrazie rappresentative. In Italia, mentre alla caduta del fascismo le grandi forze parlamentari stringevano il patto costituzionale, i democristiani non rinunciavano a rincorrere il voto dipingendo nelle piazze i comunisti come mangiatori di bambini, e la propaganda comunista rappresentava senza sfumature il fronte avversario come un indistinto partito dei forchettoni. Nel caso delle democraturecontemporanee – dittature “democratiche” legittimate dal voto popolare, si pensi alla Russia di Putin, all’India di Modi o alla Turchia di Erdogan –, in regimi facenti parte di sistemi sovranazionali ispirati alle democrazie liberali (alcuni Paesi dell’Est Europa membri della UE) e persino in un caso inedito, ma non per questo meno inquietante, come gli Usa di Trump, quello del populismo sembra costituire il codice comunicativo più diffuso e più elettoralmente redditizio. Si tratta del resto di un codice fra i più versatili, potendosi coniugare con infinite varianti sia di contenuto, dalle suggestioni etnonazionalistiche all’integralismo religioso sino al revisionismo storico, sia di pura strategia mediatica. Anche qui, è perfettamente legittimo ricordare come la disinformazione, la manipolazione o la pura e semplice invenzione costituiscano da sempre un poderoso supporto della propaganda politica e non solo di quella populistica. In forme le più disparate, precedono di secoli l’allestimento scientifico di repertori di fakenews da affidare alla anonima gestione degli algoritmi telematici. Proprio la potenza e la velocità di azione-reazione delle tecnologie digitali ne rendono però enormemente più insidioso l’uso.

Il populismo digitale, esattamente come tutte le tipologie che lo hanno preceduto nel tempo, rappresenta insomma al tempo stesso una sfida agli assetti politici consolidati e il sensore socio-culturale della loro crisi di legittimità. È mia intenzione prendere le mosse da questa prima ricognizione del campo, e dalle intuizioni già qui sviluppate da altri amici come Benedetto Salerni (Spazioliberoblog del 10 novembre 2017), per tentare un’analisi, inevitabilmente parziale e soggettiva, del fenomeno populista. Credo che il contributo più originale e convincente nell’analisi del populismo 2.0 venga dal recente lavoro di Alessandro Dal Lago (2017), il cui titolo non lascia equivoci: Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra. Vorrei soffermarmi un’altra volta sugli stimoli che contiene questo lavoro e altri sul tema. Intanto, chi fosse interessato ad approfondire, si becchi questa prima bibliografia di riferimento. Ci aiuterà a proseguire la peregrinazione.

 

NICOLA R. PORRO

 

Bibliografia:
Bianchi L. (2017), La gente. Viaggio nell’Italia del risentimento, Minimum Fax, Roma.
Corbetta P. (a cura di) (2017), M5s. Come cambia il partito di Grillo, Il Mulino, Bologna.
Corbetta P., Gualmini E. (a cura di) (2017), Il partito di Griilo, Il Mulino, Bologna.
Dal Lago A. (2003), Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, Ombre corte, Verona.
Dal Lago A. (2017), Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Cortina, Milano.
Formenti C. (2016), La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo, DeriveApprodi, Roma.
Laclau E. (2005), La ragione populista, Laterza, Roma-Bari.
McLuhan M. (1967), Il medium è il messaggio, Feltrinelli, Milano (con Q. Fiore).
Melucci A. (1982), L’invenzione del presente. Movimenti, identità, bisogni collettivi, Il Mulino, Bologna.
Meny Y., Surel Y. (2000), Populismo e democrazia, Il Mulino, Bologna.
Revelli M. (2017), Populismo 2.0, Einaudi, Torino.
Riesman D. (1950), La folla solitaria, Il Mulino, Bologna.
Rosanvallon P. (2011), La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma.
Taguieff P. (2003), L’illusione populista, Mondadori, Milano.
Virilio P. (1994), “Cocktail Italia: il colpo di stato mediatico”, in Reset, 7.
Ziccardi G. (2016), L’odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete, Cortina, Milano.