È NATALE NELLA PICCOLA CITTÀ – Auguri di buon Natale

ELOISA TROISI 

Oh, earth, you’re too wonderful for anybody to realize you. Do human beings ever realize life while they live it – every, every minute?
[Thornton Wilder]

Se potessi scegliere cosa regalare a te in nome del Natale e di tutto ciò che significa, caro lettore di questo blog, mio virtuale e fedele amico, ti farei recapitare a casa un braciere di ghisa.

Saresti sorpreso dall’originalità del mio dono, ti interrogheresti a lungo sulle ragioni di un regalo così poco maneggevole da attirarsi i malumori di tutti i corrieri che l’hanno preso in carico. Un attimo dopo aver apposto la tua firma distratta e sbilenca sulla ricevuta di consegna, pondereresti l’angolo giusto dove posizionarlo. Finiresti per scegliere il canto più impopolare del salone – quello non a vista, arredato da chi è soltanto di passaggio. Rimpiangendo in cuor tuo sciarpe e presine, impersonali indizi di un convenevole e comodo distacco, ti adopereresti a trovargli un’utilità. Non la troveresti, perché hai caldo, hai i climatizzatori, sei disabituato alle bufere e aspetti l’inverno come un vezzo per dimostrare al tempo che i tuoi antenati hanno imparato ad essere più forti di lui, di ogni stagione. Di ogni epoca.

La verità è che ti ho regalato un braciere per ricordarti che non è vero.

Perché tu possa spogliarti di tutti quei vestiti che non ti vanno né ti andranno più bene, ché le mode passano, i corpi cambiano, le maniche si ritirano. Perché tu possa finalmente sentire freddo, bruciare tutto il superfluo che ti illudeva di essere più forte del tempo e ricavarne calore. Perché tu possa diventare fenice.

Che brucino quindi, insieme ai tuoi vestiti, tutte le illusioni, i falsi idoli, i palliativi emotivi, gli accessori materiali che ti hanno ingannato, ammaliato, distolto dalla vera Bellezza della vita, impedendoti di sentire sulla tua pelle il calore del fuoco. Il fuoco che consuma e distrugge, certo, ma lentamente, secondo un crepitio bellissimo e musicale, unico indizio di una vita che si consuma.

Sono i bracieri che salvano.

È il fuoco che monda, consuma e vivifica.

La dolce Emily Webb, coniuge Gibbs di Our Town, opera teatrale firmata dal premio Pulitzer Thornton Wilder, avrebbe voluto saperlo prima di dare alla luce il suo secondogenito. Ma per sfortuna, sebbene tutti gli uomini abbiano bisogno di un braciere, nessuno ne avverte la necessità e allora non se ne regalano mai, al di qua della collina, ove stanno quelli che son vivi e non lo sanno.

È una storia che commuove, questa Piccola città raccontata alle soglie del Natale al Teatro Nuovo Sala Gassman daCompagnia di Serena e Blue in the face per la regia di Ettore Falzetti e la direzione artistica di Enrico Maria Falconi. Tre atti, intervallati dal tempo di una sigaretta dal sapore sempre diverso, a poco a poco più amaro, hanno visto compiersi le quotidiane dinamiche di Grover’s Corners, piccolo centro degli Stati Uniti d’America che di speciale non ha proprio nulla, fuorché la normalità.

La guerra ancora non è iniziata, i giovani promettono prodezze che sanno di eternità e il treno, poco distante, fischietta sogni e paure. Esercizi di immaginazione, grandi discorsi, semplici svaghi: il primo atto racconta un giorno qualunque, senza eventi particolari, in un anonimo centro abitato. Un giorno qualunque, in cui i giovani si amano con timidezza e pudore, le bambine mettono il broncio e poi alzano gli occhi al cielo per vedere la luna crescere insieme a loro, le donne rassettano la cucina e gli uomini soli cercano compagnia in un bicchiere di vino – in due, in tre, in una bottiglia di vino, fino a dimenticarsi d’essere soli.

I ragazzi non sanno che esiste la guerra e che dovranno morire, la bibliotecaria impara e vomita nozioni per attribuire una ragione – o anche solo un nome, una collocazione geografica – al suo essere nata incompresa.

È un giorno qualunque anche quello in cui Emily Webb (Federica Falzetti), studentessa modello che vorrebbe tenere grandi discorsi tutta la vita, e George Gibbs (Simone Luciani), aspirante fattore che vorrebbe giocare a baseball tutti i pomeriggi della sua vita, si innamorano. Accade in un tempo lunghissimo, fatto di indugi e tormenti, rossori ed entusiasmi, eppure si compie in un solo momento, quando si rendono conto di guardarsi a vicenda, di preoccuparsi dei malumori e delle influenze che il mondo ha sull’altro. Accade in un momento, in un giorno qualunque, perché è quel che basta per sentirsi visti, spiati, desiderati – amati.

È ancora un giorno qualunque quando Emily e George convolano a nozze. Ad un tratto, Emily non è più sicura di volersi sposare, ché si è sempre amata troppo poco per pensare che un altro possa amarla tanto quanto lei abbia bisogno. La prontezza con cui George la stringe a sé riesce a fugare ogni dubbio: la ragazza non ha alcuna assicurazione ragionevole per pensare che lui possa tener fede alla sua promessa, eppure si fida.

È per questo che, secondo un’invitata che non eccelle in sobrietà, i matrimoni sono sempre tanto belli.

I toni sono leggeri, a tratti velati da una tenerezza che fa inclinare la testa e sorridere di un riso ingenuo, puro. Poi, dopo il tempo di una seconda sigaretta dal sapore dolciastro, arriva il terzo atto e quella che potremmo definire <<una delicata commedia>> culmina in un’epifanica rivelazione.

Sono trascorsi undici anni ed Emily Gibbs è morta, per dare vita al suo secondo figlio. Ora è anche lei sulla collina, lontana dal mondo dei vivi. Quanto ne sia realmente lontana, però, Emily non può ancora capirlo.

È naturale che sia proprio la pragmatica ed acuta Signora Gibbs (Maria Chiara Trabberi), anche lei ormai sulla collina, ad aiutarla nella realizzazione di questa distanza, per neutralizzare ogni tentazione di ritornare. Altrettanto naturale è l’ingerenza nei dialoghi, assente sino a questo momento, della voce narrante (Ettore Falzetti), che ora partecipa perché non esiste più alcun distacco possibile tra gli eventi e la cronaca. Perché la cronaca, in fondo, è un accessorio che pratichiamo esclusivamente al di qua della collina.

Emily può scegliere un giorno della sua vita mortale per riviverne i momenti, i luoghi, gli affetti. Sceglie, chissà poi perché, il giorno del suo dodicesimo compleanno, quando tutto scorreva senza complicazioni e l’unico pensiero che frequentava la sua mente era il regalo che suo padre le avrebbe portato al rientro dal lavoro. Emily torna così nel mondo dei vivi, ma loro non possono riconoscerla per quella che è diventata. Guarda la vita compiersi, senza la possibilità di parteciparvi realmente.

Piange, si dispera.

È sempre a Grover’s Corners, in quel piccolo centro che ora si assurge a emblema di un luogo in cui si passa la maggior parte del tempo a sognare di essere altrove.

Emily vede gli esseri umani vivere la propria vita senza esercitare entusiasmo per ciò che posseggono in quel dato momento, ma che non stimano grande cosa perché prede delle ambizioni, delle congetture, delle aspettative per un futuro che promette tutto e non dà, in definitiva, niente.

Emily ne è straziata: capisce che tutti gli uomini commettono questo imperdonabile errore e sente d’aver consumato anche la propria vita senza essere stata consunta. Sente di non aver bruciato e capisce che è proprio per questo, forse – per espiare la pena di non aver compreso il grande valore di essere vivi – che gli uomini muoiono. Nell’acquisizione di questa consapevolezza, Emily, personaggio di un’opera scritta nel 1938 da un autore statunitense, non è poi così dissimile dall’Achille che incontra Ulisse nella sua discesa agli Inferi e che disprezza ogni gloria o ricchezza mortale, rispetto alla Vita.

Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! Vorrei da bracciante servire un altro uomo, un uomo senza podere che non ha molta roba; piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti.

[Odissea, XI libro]

Ora, Emily vuole tornare sulla sua collina, dove regna la consapevolezza dell’inestimabile valore della vita perduta, che gli uomini vivi non hanno.

Se solo Emily potesse parlare con George, con sua madre, con i suoi figli, li salverebbe.

Se solo Emily potesse inviare loro un braciere, per spogliarsi di tutti i falsi idoli che rincorrono e rincorreranno nella propria vita mortale, per poi sedersi attorno al falò di queste false promesse e godere di tutto il calore d’essere vivi, sarebbero salvi.

Ma questo non è possibile, perché Emily è dall’altra parte.

Emily non può tornare, perché dal mondo dei vivi la separa ormai quella grande consapevolezza che noi abitanti di questa Terra, troppo meravigliosa per essere amata fino in fondo, noi che abbiamo sangue pulsante a percorrerci le arterie e parametri vitali più o meno nella norma, persi nel vizio di una progettualità infinita, non potremo mai condividere razionalmente.

Possiamo solo sentire tutto il dramma che si cela dietro al lusso di guardarsi vivere la propria vita con distrazione, come se non fosse una cosa interessante, quasi fosse non bella.

Ed è per questo, caro lettore, che per questo Natale hai ricevuto un braciere.

In nome di tutto ciò che conta davvero, ed è qui. Adesso.

Senti come crepita il fuoco?

ELOISA TROISI