La democrazia ereditaria
di FABRIZIO BARBARANELLI ♦
Non mi piacciono i partiti personali, quelli che si identificano con il capo. Tuttavia riconosco che non sono tutti uguali, tra di loro possono esserci differenze anche profonde. Ci sono partiti che diventano personali per la forza di un leader cresciuto sul consenso e ci sono partiti personali perché di proprietà di una persona o di un società di persone.
Nei primi la leadership te la devi conquistare, è il frutto di discussioni, di confronti, di congressi, e spesso anche di violenti contrasti.
Nei secondi c’è il proprietario del simbolo, quello che ha il timbro che convalida. Se ti sta bene è così altrimenti ti devi fare un altro partito, come è il caso di Pizzarotti a Parma e di altri.
Non è una differenza da poco, come non è da poco la differenza tra democrazia ed autoritarismo. Poi si potrà discutere sull’esercizio della democrazia e sulla sempre possibile manipolazione del consenso. Ma la democrazia è anche questo, almeno fino a quando non si inventeranno altre regole che nessuno ancora è stato in grado di indicare.
Nella democrazia hai diritti, nei sistemi autoritari no. Il capo ti può tranquillamente negare il simbolo del partito (o del movimento, questione puramente nominalistica) anche quando i clic si sono espressi a tuo favore. E’ il caso di Genova e del “fidatevi di me”.
Sembra che questa diversità non sia molto chiara e si tende ad omologare tutte le formazioni politiche. Non può essere così. Ci sono diversità radicali e non si tratta di questioni marginali, che riguardano soltanto gli assetti interni ai partiti. No, esse riflettono la visione dello Stato, le sue regole. Come ti organizzi all’interno, così organizzeresti la società.
Chi è autoritario in casa non può che esserlo anche nel mondo esterno. E’ questione di cultura politica.
Ho timore per i partiti che si identificano nel leader ed ho terrore dei partiti di proprietà personale.
I primi possono degenerare nel fanatismo, nell’intolleranza. Possono anche aspirare all’autosufficienza, essere insofferenti alla critica e al pluralismo, tendere alla generale omologazione alle idee del capo. Possono pensare di cancellare la dialettica interna, le differenze di sensibilità e di cultura, diventare intolleranti verso le articolazioni della società (sindacati, organizzazioni di massa, categorie, ecc.) e considerare la mediazione come un fastidio. Ma rimangono pur sempre condizionati e il leader può essere sconfitto. Debbono in sostanza fare i conti con gli altri, con il gioco dei contrappesi che nella democrazia è determinante.
Se gli iscritti dicono di no, se ne debbono andare come sono venuti. Oggi ci sei, domani potresti non esserci, a meno che non cerchi di modificare in senso autoritario le regole del gioco con la forza del consenso che hai, come è già avvenuto nel passato: il ventennio nacque dentro la democrazia di allora. Ma questo è un altro discorso.
Io non voterò Renzi quale segretario del PD perché ho molte riserve sul suo modo di gestire il partito e soprattutto perché non condivido il doppio incarico di leader del partito e del governo, solo per fare un esempio.
Ma riconoscerei la sua legittimità nel momento in cui dovesse vincere (come è probabile) le primarie e starei alle regole del gioco.
Ma potrebbe anche perderle ed a quel punto un altro prenderebbe il suo posto e sarebbe lui a dover stare alle regole del gioco, senza altri traumi che quelli personali o di chi lo sostiene. Il PD continuerebbe ad essere tale, magari con una linea diversa.
Questo vale anche per altri partiti.
Con Grillo non è così, Grillo non può perdere. Questa è la differenza. Non può perdere perché non è soggetto alla verifica del consenso, perché il partito è suo.
Se ipotizzo un governo dei grillini a misura di ciò che sono e che professano, del loro modello organizzativo, delle confuse ed oscillanti posizioni che assumono sui grandi temi della contemporaneità, del concetto che hanno della democrazia e del pluralismo, il futuro mi sembra addensarsi di incertezze e di oscurità.
Può governare, mi chiedo, un partito o, se si preferisce, un movimento, che ha un padrone (o due padroni, non fa differenza) che diverrebbe automaticamente anche il padrone del governo?
Penso a Roma e al rapporto di sudditanza della sindaca nei confronti di Grillo e Casaleggio, alla sottrazione di fatto del potere dalle mani dell’istituzione democratica per trasferirlo al capo.
Ho trovato penose alcune dichiarazioni della Raggi soprattutto all’inizio del suo mandato, quando, essendo in difficoltà, cercava la tranquillità nel sostegno di Grillo, trascurando che un sindaco il sostegno deve cercarlo solo tra i cittadini. Mi sono chiesto con inquietudine dove stiamo precipitando e quale cultura politica si va affermando.
Non è una semplificazione dire che in quel sistema, in quel tipo di organizzazione, non c’è spazio per la democrazia.
Se cerchiamo una conferma la troviamo senza difficoltà nella storia del giovane Casaleggio. Come è diventato un leader del Cinque stelle? Sembra naturale che egli sia parte attiva e determinante, forse alla pari con Grillo, delle scelte del movimento e nessuno sembra mettere in discussione il suo ruolo. Ma da chi sia stato eletto, quale consenso abbia avuto e da quale percorso democratico egli sia giunto al vertice, è davvero questione irrilevante?
In realtà egli è semplicemente l’erede del più noto genitore e quindi socio per discendenza nella proprietà del movimento.
Una democrazia ereditaria è una novità assoluta nella storia repubblicana.
Tra i Cinque stelle ci sono tanti giovani animati da una sincera voglia di cambiare il nostro paese e di costruire una società migliore e più equa, come ci sono in altri partiti e come esistono fuori della politica.
A quelli bisogna guardare senza supponenza e con grande disponibilità a un confronto che oggi sono loro a non volere.
Ma il movimento di Grillo è altra cosa, ha un’altra natura ed è questo che dobbiamo osservare con attenzione e, aggiungerei, con preoccupazione, perché rientra a pieno titolo tra i movimenti populisti, di destra, che tanto allarme destano in Europa e nel mondo. E il populismo è stato sempre l’anticamera dell’autoritarismo.
La democrazia è una conquista e da noi come in altri luoghi è stata una conquista sofferta, frutto di uno straordinario impegno e sacrificio di tanti di cui oggi si rischia persino di perdere la memoria. Come si è ottenuta si può perdere.
FABRIZIO BARBARANELLI
Sono d’accordo a aggiungo qualche considerazione. Quello che viene disegnato è lo scenario della cosiddetta post-democrazia. Fenomeno che presenta somiglianze ma anche distinzioni importanti in contesti diversi. Credo che per sconfiggere il populismo sia utile cominciare col declinarli al plurale. Ci sono tanti e diversi populismi, quello che li accomuna è l’ostilità ai corpi intermedi (non è casuale l’offensiva antisindacale di questi giorni), il leaderismo gregario e “dinastico” e il ricorso alla rabbia sociale come carburante della politica. Incapaci quasi sempre di tradursi in programma, tali ingredienti erano presenti anche nelle vecchie forme partito. C’è chi ha descritto i partiti di massa del Novecento come le “banche della rabbia”, che amministravano e spendevano sul mercato politico conflitti e frustrazioni diffusi. Però erano contendibili, si davano regole e strategie, proponevano un’idea pedagogica del conflitto che pure è degenerata talvolta in ideologie dogmatiche. L’ideologia della rete e la mistica del capo nel tempo digitale sono pericolose perché il destinatario del messaggio è atomizzato, oggetto di un messaggio che si traduce nella preservazione ed eccitazione della rabbia e poco altro. Oggi più che mai il medium è il messaggio.
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Sono d’accordo.
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Temo che gli elettori del M5S e la gran parte degli italiani in genere non sappiano queste cose o non ci riflettano a sufficienza. Anzi temo che non gli interessi affatto. E che non pensino che un ” padrone “, un ” uomo forte ” sia un male in assoluto.
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Andiamo a votare e lasciamo esprimere i cittadini, quale miglio modo di esercitare la democrazia.
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Dal primo Vaffa Day che combatto questo partito, lo chiamò così perchè è un partito , i movimenti sono altra cosa. questa auto denominazione non è neutra , così come non è neutra il farsi chiamare ” grillini” con un diminutivo con connotazione positiva e che dovrebbe predisporre l’ interlocutore a fidarsi di loro. L’ uso che fanno del linguaggio è studiato nei particolari e infatti noto che l’ egemonia ” culturale” ( meglio sub-culturale) che stanno esercitando sulla società italiana passa da questo. Dovremmo essere noi per primi a rifiutarci a riecheggiare le loro parole d’ ordine, le loro pratiche e fare altro. Odio le parole comunarie , parlamentari e, quirinarie che non esistono nel vocabolario italiano. Il rovesciamento di senso di quello che dicono è inquietante, come bene esprime Fabrizio in questo scritto. L’ autoritarismo e il dispotismo spacciato per democrazia diretta, la segretezza e l’ opacità delle decisioni spacciati per trasparenza, il padrone assoluto spacciato per garante. Spacciatori, dovrebbe essere in galera invece di girare a piede libero.
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Populismi e dittatori nascono laddove la politica che si autodefinisce “seria” non riesce a rispondere alle necessità di un paese, quando non si riesce a programmare un futuro che dia un orizzonte al suo popolo. Quando la gente perde i riferimenti. Certo si può criticare il grillismo, assolutamente legittimo e mi trova d’accordo, ma farlo senza considerarne le motivazioni, senza cioè considerare ciò che ha portato la gente ad accomunarsi nel vaffaday non credo sia un modo virtuoso di affrontare il tema, specie per chi milita in partiti di governo. Il grilismo non è il problema del paese, ma il prodotto dei problemi del paese, non è una causa ma l’effetto. E’ qualcosa che si dovrebbe tenere ben presente se si vuol parlare di politica senza presunzione.
Dovrebbe far riflettere il fatto che quando il tema è Grillo o il M5S si accendono i commenti come se si toccassero nervi scoperti. Invito alla riflessione.
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Io fondo un partito e dico che questo partito sostiene che al semaforo si deve passare con il verde,poi entra uno,che se entra è d’accordo con la cosa e poi dopo un po costui dice che si deve passare col giallo:io che ho fondato il partito devo accettare che ci militi uno che vuole passare col giallo e non ho il diritto di prenderlo per un’orecchio e sbatterlo in faccia al muro?Se gli eredi del PCI avessero fatto così ,oggi non si troverebbero un povero bulletto spocchiosetto mezzo democristiano e mezzo ventennale come padrone del partito da tenersi sulla gobba per i prossimi venti anni.
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Il PD credo si possa tranquillamente definire un grande partito con molte anime. E non potrebbe essere diversamente, ovvero un “grande” partito non sarebbe tale se fosse costretto al “pensiero unico”. Visto da fuori, però, il problema non appare la molteplicità di pensiero e/o di interessi rappresentati. La politica nostrana ha un, per me, difetto: ha in condizione la necessità/voglia di vincere e/o guadagnare posizioni di leadership/potere. Per la politica italiana l’importante non appare l’essere rappresentanti ed espressione di idee e/o fasce di popolo ma quello di “contare”. Lo ha chiaramente detto Renzi: “.. per vincere non si può fare gli schizzinosi”. E dunque l’importante è vincere, ma mica solo per Renzi, è così per tutti, M5S compreso. In questo ogni movimento diventa partito, convengo su ciò con Annalisa Contu. L’azione politica dei nostrani grillini in più occasioni cede alle necessità della poilitca del consenso. E come molti parlano dell’azione di Renzi in termini di “vittoria o sconfitta”, come se l’unico obiettivo dell’azione politica fosse “vincere”, allo stesso modo si comportano i partiti del “padrone”. Il Vaffaday non è molto dissimile dal “vinco perchè sono come gli italiani vorrebbero essere” di berlusconiana memoria. In questo quadro, coloro, e penso che siano tanti, che pensano alla politica come qualcosa di diverso, qualcosa di più nobile, sono spiazzati, parlano un’altra lingua. Una cosa è certa, si possono fare mille critiche al PD ed alla sua leadership, ma è certo che non vi sono altri partiti con un livello di partecipazione democratica come accade nel Partito Democratico, potrà non piacere la sua svolta, ma certo nessuno ha cacciato Emiliano e quanti, stando dentro, cercano di far valere la propria concezione delle cose, come è giusto che sia in un grande partito. La grandezza non la fa la quantità di voti, ma la quantità di idee capaci di trovare la sintesi di una azione politica. Roba assolutamente difficile, e le cronache ce lo dicono, ma di certo l’alternativa del partito padronale non è migliore ne auspicabile. Va benissimo quindi criticare grillismi e berlusconismi, ma lo si faccia con il pensiero a ciò che li ha provocati e su questo si lavori. Meglio prevenire che curare, meglio uscire dalla logica dell’eterna campagna elettorale, meglio creare sempre più spazio per la politica del pensiero e toglierne sempre più alla politica dei voti.
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