A POLA PARLANO TUTTI ITALIANO

di LUCIANO DAMIANI 

Andando avanti nella vita ti rendi conto che la cronaca, fatti, commemorazioni ecc.. risvegliano ricordi di un passato più o meno recente, ricordi più o meno vividi, ma comunque, riaffiorano dal profondo della memoria esperienze passate, viaggi, incontri e accadimenti. Ricordi che richiamano altri ricordi, memoria ed emozione. Del resto il tempo non passa inutilmente, qualcosa ti lascia, vuoi o non vuoi, fai esperienza. Essa rimane in superficie giusto il tempo perché tu possa raccontarla, ma giusto il tempo dell’attualità. Una volta spesa, raccontata, finisce archiviata nelle cellule cerebrali, passando da una sinapsi all’altra scende nel profondo. Pare che la memoria dei ricordi s’annidi nel “lobo temporale”, ma la cosa non è chiara.

Dunque, dicevo, accadimenti attuali richiamano esperienze passate, non per farti sentire “anziano”, ma certo accade che ti domandi quanti anni siano passati, tanto profondo ti pare il luogo dal quale il ricordo è riaffiorato. E così accade che nel giorno della memoria delle “Foibe” ti ricordi del documentario che tuo figlio fece sull’esodo degli italiani dall’Istria, ma ancora da più lontano, del viaggio che circa 30 anni fa, o forse più, facemmo in quella che era ancora Jugoslavia.

Fu il primo vero viaggio che facemmo da sposini, non so perché scegliemmo proprio quello, chissà forse perché era una meta a portata delle nostre tasche, ma insomma decidemmo così: entrare da Trieste, l’Istria e poi verso l’interno, le Grotte di Postumia, i laghi di Plitivic e, restando nell’interno del paese, sino a Sarajevo, e poi  Dubrovnik e Kotor (le Bocche di Cattaro). Mio suocero, sicuro di se mi disse: Andate tranquilli che in Istria parlano tutti l’Italiano. Partimmo con la nostra Lancia Beta bordeaux ed entrammo in Jugoslavia. Per andare sul sicuro, vista la scarsa esperienza di viaggio, la prima notte la prenotammo in un hotel 5 stelle, non si può mai sapere. Arrivammo in albergo, il parcheggio era custodito da una sbarra e da un signore che la manovrava, gli dissi che volevo entrare nel parcheggio, avendo prenotato, ma non ci fu verso di farsi comprendere, riuscii a gesti a farmi capire ed entrammo. Ci avviammo alla reception, ma neppure la signora del banco parlava italiano. Pensai che gli italiani fossero andati via da abbastanza tempo per l’oblio della lingua. Nei giorni seguenti verificai che proprio nessuno parlava italiano. Me la cavavo quando capitava qualcuno che parlava inglese, pochi a dire il vero. A chi mi chiese da dove venissimo rispondevo: “da Roma”, chi è che non capisce Roma?!. Ecco in Istria e a Fiume, Roma non la capiscono….  Ahh… Rim, si dice Rim. Hanno cancellato anni di storia, però Paolo Rossi lo dicevano bene.

Ho chiesto a mio figlio dove fosse il documentario per poterlo rivedere. Lo trovo sgarufando in scatole di scarpe piene di DVD. Lo provo, ancora non è rovinato e si vede, ma dura parecchio, dovrò trovare il momento adatto per rivederlo con calma e prendere appunti.
Il documentario, racconta di due giovani, discendenti di esuli istriani che tornano in Istria per conoscere la terra dei propri nonni. La visitano, ognuno per proprio conto, con in mano le cartoline d’epoca ingiallite dal tempo; raccontano di quando in quelle terre si parlava italiano, i nomi delle persone e delle vie erano italiane, in un luogo che dappertutto sapeva di Venezia, impregnata di Venezia.

Il documentario è un mix di storia dei luoghi e memoria, inizia con carri colmi di masserizie che si allontanano, persone che raccolgono pezzi di mattoni per ricordo, e sguardi tristi oltre bordo nave per vedere allontanarsi la propria terra.
Gli italiani fuggiti dalle loro case portando con se solo ciò che si poteva portare fisicamente, ovvero lasciando danari, proprietà e non solo, hanno portato con se la propria storia e la propria identità, che seppur cancellata da quei territori, sopravvive altrove.

Il 10 febbraio Tg e radiogiornali hanno parlato delle Foibe, documentari e speciali si sono susseguiti raccontandoci cosa furono le foibe e dell’esodo dei Giuliano/Dalmati. Qualcuno ha detto dell’uso della “epurazione” come strumento per “estirpare etnie e culture”, allora ho collegato. Ho collegato l’operazione di pulizia etnica con la non conoscenza dell’italiano che avevo sperimentato in Istria.

Mentre scrivo altri ricordi affiorano. Uno, recente, sbuca da una visita a Strasburgo. La guida racconta che nell’ultima guerra, il comandante tedesco della piazza dispose misure incredibili per minare proprio la cultura di quei luoghi, dalla proibizione di parlare francese, al cambio della toponomastica con nomi tedeschi ed altre misure atte a germanizzare. Allora penso che anche Tito si preoccupò, nel dopoguerra, a slavizzare quelle terre eredi delle città stato amiche e sodali della Repubblica Veneta.

Leggendo “2001 Odissea nello spazio” ho colto un concetto che sinora non mi era presente. Sulla Luna una persona di 80 chili ne pesa 15 ma se è vero che il peso è ridotto, altrettanto vero è che la massa rimane quella. Questa cosa m’ha fatto pensare al fatto che per quanto il problema lo si possa spostare, rimandare, sospendere o driblare la “soluzione” è altra cosa. Per quanto si voglia epurare, riprogrammare, rigenerare un popolo, la memoria di questo rimane sempre. Quanti popoli cacciati, epurati, riprogrammati sono ancora “vivi” e presenti? Anche gli Indiani d’America ci sono, ancora, e si sono fatti sentire tanto da bloccare un oleodotto nelle loro terre (pare che Trump ci voglia riprovare). I Figli di Israele, popolo cacciato per antonomasia, da sempre, da quando esiste la “storia”, stanno a dimostrare che per quanto si possa essere forti, culture e popoli non possono essere distrutti, possono essere respinti e cacciati, facilmente come un macigno sulla luna si lancia lontano con poco sforzo, ma la sua “massa” rimane, da qualche altra parte e cercherà di ricostruire il legame intimo con la propria terra, un giorno o l’altro.

Il documentario racconta di una storia dell’Istria fatta di città stato alleate a Venezia, tante piccole Venezia hanno fatto la storia di quei luoghi. Una storia ben ricca di cultura e uomini illustri che hanno plasmato quelle terre ad immagine e somiglianza della Serenissima. Il leone alato con il libro aperto guarda all’amica Venezia, quello con il libro chiuso è rivolto ai nemici.

Ma come sempre accade chi perde ha sempre torto, ed in questo caso ha perso l’italianità di un territorio che ha lasciato il posto agli Slavi, in gran parte venuti di la delle montagne.

Così accade che la Madonnina di Abbazia venne demolita e sostituita con la statua di una partigiana con la colomba sulla mano, ma qualcuno l’ha recuperata, la madonnina, ne ha riunito i pezzi e l’ha ricomposta altrove. Si può cancellare quasi tutto, ma la memoria è difficile da estirpare. Il nipote del nonno scappato a Roma nel rione Giuliano Dalmata, l’ha comunque ritrovata la sua casa, anche se hanno cambiato il nome della strada. Ha trovato la porta, una porta segnata, come quelle di altri tristi momenti della storia in cui si segnavano gli usci di nemici o appestati, segnati come gli alberi da abbattere.

Il documentario termina con i due giovani che si incontrano, entrambe hanno in mano una pietra di quella terra e raccontano…

Il ragazzo: “La mia pietra è scappata da sola nel doppiofondo di un camion, è arrivata a Roma ma nessuno la voleva”
La ragazza: “La mia è partita con la nave ed è arrivata ad Ancona, ma nessuno voleva darle da mangiare, pensavano fosse fascista”

Pensavano fosse fascista….

Quanti migrati anelano il ritorno e magari si dannano per non riuscire a farlo? Gli Italiani cacciati da Pola, Parenzo ecc… hanno fondato comunità in giro per l’Italia, a Roma ad esempio c’è il quartiere “Giuliano Dalmata”, ma molti, non trovando ospitalità in una Italia che usciva da una guerra tremenda, e si imbarcarono per le americhe, certamente non hanno scordato, per questo, di essere italiani o forse “istriani”, chissà, del resto i propri fratelli italiani non sono stati capaci di dividere con loro la fame del dopoguerra, e neppure la speranza della ricostruzione. Forse pensavano fossero fascisti, ma erano solo Italiani d’Istria.

La foto di copertina rappresenta il centro storico di Dubrovnik la città dalmata che si chiamava Ragusa. Come in quasi tutte le città dalmate e specie Istriane le testimonianze di un passato legato alla Serenissima sono molte e notevoli, ne sono testimoni i numerosi palazzi e campielli.
LUCIANO DAMIANI
La foto di copertina è dell’autore dell’articolo.