Apocalisse programmata: la necessità della fine

di ELOISA TROISI ♦

Tànatos: Che per nascere occorra morire, lo sanno anche gli uomini. Non lo sanno gli Olimpici. Se lo sono scordato. Loro durano in un mondo che passa. Non esistono: sono. Ogni loro capriccio è una legge fatale. Per esprimere un fiore distruggono un uomo.

Eros: Iacinto ha vissuto sei giorni nell’ombra di una luce. Non gli mancò, della gioia perfetta, nemmeno la fine rapida e amara. Quella che Olimpici e immortali non conoscono. Che altro vorresti, Tànatos, per lui?

Tànatos: Che il Radioso lo piangesse come noi.

Eros: Tu chiedi troppo, Tànatos.

[C. Pavese, da “Dialoghi con Leucò”, “Il fiore”.]

Ad utilizzare il termine “Apocalisse” con serietà, senza ricorrere ad iperboli o ironie, si rischia di apparire come delle Cassandre vetuste ed inopportune. Talvolta, qualche intellettuale dal singolare talento speculativo usa il termine per indicare l’ineluttabile conseguenza della scellerata condotta umana, in una pretesa di ateismo ed emancipazione che è in realtà l’ennesima declinazione della società di colpa affermatasi negli ultimi millenni. Può infine accadere che la parola compaia nelle dichiarazioni, assolutamente lecite e razionali, di scienziati che denunciano un pianeta al collasso, distrutto dall’uomo e soggetto alle proprie leggi, indipendenti da quelle umane. In calce a brillanti articoli su perturbazioni climatiche e disastrosi asteroidi, si leggono puntuali complementi concessivi del tipo: << nonostante i numerosi progressi scientifico-tecnologici >>.

La vera Apocalisse, però, userebbe forse il complemento di causa.

Quando queste righe diverranno attuali, la carta sarà un ricordo ormai al di là di ogni nostalgia e persino il supporto digitale una velleità d’antiquariato per stravaganti; la facoltà di parola e di memoria sarà delegata a delle macchine, per consentire all’uomo – umanoide – di essere più produttivo, o forse solo più pigro. Chissà se si conserverà ancora la facoltà di sentire o se sarà un accessorio di cui dotare un oggetto di lusso.

Potrebbe sembrare la scenografia ideale per un film di fantascienza, ma non è un’eventualità così lontana come la si immagina. La ricerca scientifica sta infatti correndo a falcate rapide ed ottuse verso un’unica direzione: l’immortalità del corpo. Quando sarà riuscita a raggiungere questo obiettivo, dunque, dovrà mettere a punto un mondo che gli somigli, lontano da ritmi e sinestesie.

Sembra che il problema dell’uomo, piuttosto che la qualità di vita, sia diventata la propria natura di essere mortale. I profeti di questa nuova umanità, che non ha niente di über, assicurano sia la naturale evoluzione del progresso, la degna erede della scoperta del fuoco.

Garantiscono poi che, in questo futuro non troppo lontano, sarà preservata la libertà di scelta: ciascuno potrà decidere se sottoporsi ai trattamenti necessari per sfuggire alla morte o se assecondare il naturale corso del corpo. Pertanto, non ha alcun senso sollevare obiezioni e porre limiti al divenire inumano: chi osa dubitare della necessità di questo cambiamento è un gufo reazionario o un capriolo ingenuo.

Eppure, sarebbe la vera Apocalisse che la nostra società di colpa ed espiazione sta aspettando da millenni. Essere immortale – o vivere tra immortali – segnerebbe l’unica, insanabile cesura col passato umano, dalla sua comparsa sulla Terra sino ad oggi. Si reciderebbe il cordone che tiene ancorata la specie a sé stessa, che rende tutti gli uomini eguali e diversi, vulnerabili alle stesse favole e capaci delle stesse, titaniche imprese. Se l’uomo diventasse immortale, non dovrebbe più imparare la saggezza del vivere e del morire: perderebbe la memoria e il culto del tempo, delle stagioni, del rimpianto, della paura, del sollievo, della malattia, della guarigione, del desiderio, del ricordo. Verrebbe così meno quel substrato empatico su cui si fonda il concetto stesso di umanità: rimarrebbe la componente biologica, così lapalissiana da sfuggire all’appercezione, e quella intellettuale, così ineguale da rendere impossibile ogni universalità. Collasserebbe così la specie umana, e con lei l’arte, la letteratura, la musica, la filosofia, la morale e la religione, ché nell’eternità non serve un nord verso cui orientare la bussola, né un taccuino su cui appuntare momenti, perché non importa dove si va e per arrivare c’è sempre tempo: nel tentativo di eternare l’essere umano, si distruggerebbe l’umanità, uccidendone quei padri fondatori che sono gli artisti, i filosofi e i semplici nostalgici.

Sarebbe allora corretto millantare la possibilità di scegliere se abbracciare o meno un destino di mortale tra gli immortali, di umano tra non umani?

E ancora, l’Apocalisse non riguarderebbe solo il destino collettivo.

Svuotata del concetto di tempo e di scadenza, anche la vita individuale perderebbe ogni progettualità, ogni tensione alla perfettibilità. Bisogna essere abbastanza coraggiosi da dire che, per quanto debba tendervi, l’uomo non è e, forse, non sarà mai pronto alla risoluzione dell’ansia teleologica: se smettesse realmente di porsi domande sul “dopo”, che valore attribuirebbe alla vita, ai suoi gesti, ai suoi pensieri? L’unico “perché” che sa attribuire alla propria esistenza è ancora finalistico, non causale.

È forse proprio questa debolezza, questa ignoranza, che rende il genere umano così inviso agli Dei di ogni mitologia. Perché è in virtù di questa paura, di questa piccolezza, che l’uomo diventa grande. L’Amore, la Bellezza, il Coraggio, non sono che astuzie per affermarsi, per vincere il timore di scomparire.

Senza la natura mortale, gli Dei non avrebbero più di cosa essere invidiosi, di cosa vendicarsi. La φθόνος θεῶν si ridurrebbe ad un affare da bambini capricciosi, entrambi ciechi alla bellezza di una foglia che cade, di un’onda che muore.

E allora non nascerebbero più i fiori, perché saremmo tutti, e non sapremmo più piangere, né vivere una felicità perfetta e puntuale.

E allora, forse, non esisteremmo nessuno.

ELOISA TROISI