RACCONTALO
E’ un po’ che ci penso: “prima o poi la scrivo”, prima o poi mi metterò con calma a scrivere la mia storia di malato oncologico, questo ho spesso pensato. E dunque eccomi qui a raccontare, a condividere un’esperienza comune. Una esperienza comune perché ti rendi conto che sei uno di tanti, uno di quelli che prima non vedevi, e chi immaginava che fossero così tanti, sono invisibili agli occhi dei sani.
Insomma comincia tutto subito dopo le feste di fine anno, pensi che dovresti metterti un po’ a dieta per recuperare le solite abbuffate ma non ti senti “gonfio”, pensi che ti sei regolato, che altro pensare? Passano i giorni, qualcosa non quadra, amici e colleghi ti vedono dimagrire, ti chiedono se stai a dieta e ti fanno i complimenti. Però sai che non stai a dieta, mangi “regolato” ma a dieta no. Passa quasi un mese e alla fine pensi che sia il caso di andare dal medico.
La verità viene presto a galla, t’è toccato. In famiglia nessuno è stato risparmiato, te lo aspettavi, prima o poi, ma pensavi che sarebbe venuto “poi” non prima, sarebbe comunque sempre venuto troppo presto. Li per lì rimani stordito, cominci a farti domande, sconclusionate, senza risposte, pensi di essere malato, malato di una malattia seria, ma pur sempre solo un malato. Man mano però il turbine di domande lascia il posto alla marea dell’angoscia che sale senza che tu possa frenarla, senza che tu possa scappare. Cerchi un buco, un posto dove non ti veda nessuno, ma non c’è, esci dall’ufficio, provi a prendere un po’ d’aria per sconfiggere la nausea che sale assieme all’angoscia. L’angoscia diventa terrore di un futuro che non è futuro, che è un buco nero li pronto ad inghiottirti strappandoti alla vita, alla tua compagna, ai tuoi figli a quanto t’è di più caro, che neppure pensavi ti fosse così caro.
Alla fine vomiti e ti svuoti, l’onda dello tsunami è passata e ti concede di riacquistare raziocinio e controllo di te stesso, sai che devi pensare a ciò che ti attende e come affrontarlo, cercare qualcuno o qualcosa da incolpare non serve, sarebbe uno spreco di tempo ed energie, del resto con chi prendersela? Nessuno ti dirà mai perché ti sei ammalato, se ti fossi ammalato ai polmoni potresti dare la colpa alle sigarette.
Comincia la sequenza di esami clinici, alcuni sono anche invasivi, ma sai che sei solo un malato come tanti, che puoi farcela e che per farcela devi essere forte. E’ cominciata la guerra.
La prima volta che sono entrato nel reparto oncologico, l’infermiere mi ferma nel corridoio, quanti ne avrà visti, mi dice che posso farcela ma che il 50% della guarigione dipende da me, dalla mia volontà, dalla mia testa indicandola con l’indice della mano destra. Lo prendo alla lettera, anche di più se possibile.
L’oncologo mi incoraggia, esamina i vari referti, la foto di quella specie di palla rossa piena di sangue, ed inizia a stilare il protocollo della chemio, una sfilza di sostanze con relativi dosaggi che dovranno mettermi in corpo. Dice che sono forte e posso sopportare una dose massiccia. Lo sa che non è acqua ma che per battere questo tumore bisogna andarci giù pesantemente.
Accetto la sfida, sono più forte io di lui, del “bestio”, così ho preso a chiamarlo.
Inizio a riempirlo di parolacce ed insulti, me lo guardo sullo schermo del computer e dalla mia bocca escono frasi neppure immaginabili, lo faccio anche guardandomi allo specchio, non gli do tregua.
Io, che da anni uso internet pure per fare il caffè, decido che debbo fidarmi, debbo avere fiducia nel medico che mi cura e quindi neppure provo a farmi una informazione per mio conto, non ne ho il tempo. Potevo farlo quando stavo bene, ora è il tempo di combattere e l’oncologo è il mio comandante, l’ho riconosciuto tale e debbo obbedire senza fare domande come deve, per forza di cose, fare un soldato cui si ordina di andare all’assalto. In guerra devi avere fiducia assoluta del tuo comandante, non c’è alternativa. E sono in guerra, assieme ad una famiglia che combatte al mio fianco e mi da forza e sicurezza.
Arriva il giorno della prima chemio, l’affronto da “cuor di leone”. Mi sistemo nella poltrona reclinabile, vedo gli infermieri che sistemano sul trespolo, una sacca dopo l’altra, ne conto 9. Nella sala sono quello che ne ha di più, da giovane soffrivo di complessi di inferiorità.
La curiosità, all’inizio, è forse il senso più presente, un poco d’ansia, ma neanche tanta, essere li assieme ad altri, probabilmente, mi da una certa forza. Mentre i veleni scendono nelle vene mie e dei convenuti, si chiacchiera, si fa conoscenza.
Man mano che le sostanze entrano in circolo inizi a sentirne i fastidi, c’è il medicinale che ti da nausea immediata, ma che regolandone la velocità d’afflusso riesci a sopportare, ti senti debole e fatichi a stare in piedi, anzi devi quasi sdraiare il lettino. Cambia la sensibilità di quasi tutto, a volte devi tenere i guanti perché qualsiasi cosa tocchi pare di ghiaccio. Ad ogni seduta seguono effetti diversi. Ogni 15 giorni sali le scale dell’ospedale con il terrore di ciò che ti accadrà, ma poi entri nella sala delle terapie e vedi i compagni d’avventura ed allora cerchi di essere positivo, provi ad alzare l’umore della compagnia, fai quasi il buffone.
Siccome la tua è una cura da cavallo, sei sempre l’ultimo ad andar via, per andar via bisogna che ti sorreggano, 4/5 ore di chemio non sono proprio una passeggiata. Arrivi a casa e ti stendi sul divano con una camomilla calda. Un contenitore appeso al collo continuerà per due giorni ad iniettarti del veleno goccia dopo goccia, ti riserva un continuo senso di nausea, fin quando no te lo togli e cominci a tornare alla normalità.
Ecco finalmente l’effetto chemio scema e puoi tornare ad essere “normale”, è il momento di fargliela vedere. Vai al lavoro, anche se fra un rampa di scale e l’altra devi prendere fiato. Ti neghi ogni minimo momento di pausa. Lavori al lavoro e lavori a casa. Capisci che è una lotta a 360 gradi, hai smesso di fumare, prendi a farti il pane da te, a mangiare le cose migliori, ti fai marmellate e pasta. Compri verdura fresca di stagione, pesce pescato e quanto di meglio puoi trovare. Schiacci l’acceleratore anche nell’impegno civile.
Ma la chemio torna ogni 15 giorni con la sua mano pesante a ricordarti che sei in guerra. Hai bisogno di sostegno, di un sostegno forte. A volte è dura, puoi anche perdere il controllo e dare di matto, tanta è la sensazione di “avvelenamento” che ti sorge nei primi giorni dopo la terapia.
Hai scelto di combattere col “petto in fuori”, ed allora condividi il tuo stato e ti accorgi di non esserti mai accorto di quanti malati di tumore avevi attorno. Vivendolo ti rendi conto di quanto sia grande il problema oncologico, i numeri non rendono l’idea come la rende il contatto diretto con le persone. La tua malattia diviene argomento di conversazione, la gente ti ascolta interessata e un po’ stupita della tua forza d’animo. Qualcuno viene da te per prendere coraggio per il familiare ammalato. Non faccio che raccontare la mia esperienza e so che ciò è bene.
La chemio distrugge certi tessuti, non solo le cellule tumorali. Ti trovi, ad esempio, ad avere i recettori degli odori senza protezione, e quindi assai più sensibili. Senti ogni odore e puzzo. Senti il fumo delle sigarette che ha impregnato i muri, percepisci la combustione dei motori delle macchine in modo talmente fastidioso da essere quasi insostenibile anche a distanza. Senti la differenza nell’aria che c’è dalla strada a quella del parco, non appena vi entri. Se la gente sentisse quanto puzza la sua macchina o la sigaretta che fuma, andrebbe a piedi e smetterebbe di fumare, ma la gente non lo sa. Pensa che in fondo si, fa male, ma poi non più di tanto, che sarà mai, c’è la centrale, il porto, le caldaiette ecc.. Posso mai preoccuparmi delle sigarette o della macchina? Per non parlare del cibo, non ci rendiamo conto che siamo quello che mangiamo. Ma io ho sentito la puzza, ho dovuto scegliere di trattarmi bene, ho avuto una guerra da combattere e ho cercato di farlo al meglio, senza piangermi addosso o cercare qualcuno con cui prendermela. Non ho tempo di prendermela col mondo, ho un nemico in corpo ed è con lui che mi debbo confrontare.
Passano i mesi e non vedi l’ora che arrivi il tempo dello scontro finale. Devi andare al “nord”. Devi dare la mazzata finale ad un nemico indebolito da mesi di chemio. Sei debole anche tu, ma la conta dei globuli rossi dice che si può fare, Un po’ di montagna per riprenderti e sei in forma.
Sei informato di tutto, anche del fattore “incognita”, del fatto cioè che quando il chirurgo ti aprirà capirà se potrà salvarti o no. Sai che l’operazione sarà lunga, molto lunga. Dovranno tagliare e cucire un bel po’ di roba. La notte prima dell’intervento passa, lunghissima, insonne, non hai paura di morire, hai paura di non vedere più i tuoi cari, potresti non vedere più la tua compagna della vita, sarà certo sveglia anche lei. I tuoi figli, tremendo pensare che potresti non rivederli più.
Arriva l’ora, ti alzi, fai la doccia, ti hanno detto di lavare molto bene l’ombelico, e mi ci applico per bene, mai stato così pulito. Mi infilo, nudo, il camice di carta bianca, e attendo che mi vengano a prendere. Ti sembra di essere un condannato a morte, pensi all’angoscia di tua moglie e la vorresti abbracciare fortissimo da non staccarti più, non sai se potrai farlo ancora. Ma è l’ora della battaglia finale, la resa dei conti e sai che sei stato un buon soldato e vai all’assalto decisivo. Hai paura, tanta, ma anche tanta fiducia nel tuo capitano che sa quello che fa e tornerai salvo.
Arriva l’infermiere, il compagno di stanza dorme, il camice di carta bianca l’hai messo al contrario. Ti portano via, ti preparano per l’operazione, tutti molto umani e gentili. Ti siedi su una sedia al contrario, appoggi le braccia sullo schienale e la testa sulle braccia. Senti un ago che cerca, senza dolore, il tuo midollo spinale. l’hanno trovato… non ti ricordi più nulla.
Nelle dieci ore seguenti ti hanno aperto, tagliato, cucito, pulito e non so cos’altro. Ti svegli verso sera, hai un freddo bestiale, mille tubi che entrano senza pudore nel tuo corpo da ogni parte, ma sei tornato al mondo. Ce l’hai fatta, hai vinto la guerra, ora non resta che stare in campana, hai visto mai che qualche rigurgito non si faccia vivo. Ma sai che hai vinto una volta e puoi vincere ancora, sai come si fa.
LUCIANO DAMIANI
La prima volta che ho visto la tua foto mi sono detta: ” Ma chi è questo simpatico hippy dai baffi brizzolati?”. Credo che avvenisse sulla pagina del dott.Ghirga ed era proprio la dissonanza cognitiva tra una pagina che affrontava il problema dei tumori nella nostra Città e la tua immagine hippy che mi portò a conoscere ed approfondire la tua volontà di fare ” outing” riguardo alla malattia. E’ ormai troppo stereotipato il termine di ” Guerrieri “, per quante volte noi di Civitavecchia lo abbiamo adoperato nei confronti di coloro che , grazie ai medici, hanno vinto la battaglia e nei confronti di coloro che sono morti. La nostra città vive solo di rimozioni, ciò che è stato detto, scritto ed urlato viene semplicemente rimosso.
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Già, le grida si spengono nella nebbia che tutto attutisce e avvolge. Anche la luce più vivida diviene appena un chiarore, in questa città. E se non è la nebbia sono le urla e le grida.
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… mi hai fatto piangere…
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Non so quale Antonella sei, fra quelle che conosco, ma forse non ti conosco proprio, però un sorriso affettuoso ed un abbraccio ti tocca.. 🙂
Mi hai ricordato che non ho ringraziato quanti mi sono stati vicino e mi hanno supportato, non ce l’avrei fatta, altrimenti. In queste situazione molte amicizie si svelano per quello che sono, la sofferenza porta alla luce la verità. E quindi ringrazio e ringrazio ancora di avere dei veri amici vicino a me. Ringrazio anche coloro che tanto hanno pregato e quanti mi hanno dato la possibilità di dare un senso a questa dura esperienza. Ti abbraccio forte Antonella.
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…mi hai fatto piangere…
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sono felice che tu possa raccontarlo
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Esperienza simile in famiglia. L’infermiere ha ragione, il 50% delle possibilità di guarigione risiedono in noi stessi. Nella certezza di poter vincere il male. In bocca al lupo.
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Quante altre storie ci sono da raccontare. Forse se riuscissimo a superare quel po’ di pudore che ci impedisce di condividere, staremmo meglio ed aiuteremmo altri ad affrontare meglio la malattia. Mi piacerebbe leggerne…. 🙂
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Mi fa un po’ male leggere il tuo racconto…mi è venuto in mente Giuseppe Ibelli con il quale condividevi molti interessi. Lui non ce l’ha fatta. Mi è venuto in mente che in quel periodo ho avuto una recidiva dopo 3 anni. So che non si può mai abbassare la guardia è che si sta sempre in trincea. So pure che questa malattia ti cambia e in un certo qual modo quando Vinci questa battaglia, rinasci. Rinasci con la consapevolezza di non essere immortale e che tutto il mondo attorno a te è effimero. Comunque è bellissimo rinascere
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Ecco, per alcuni di quelli che escono da questa guerra, poi si vive quasi come se ogni giorno fosse l’ultimo, non tanto per un senso di precarietà ma perchè sai che potresti non avere più tempo per amare chi ti sta vicino, per farti perdonare, per godere pienamente delle cose belle che hai attorno e a portata di mano. In una sorta di sete di vivere, di piacere e di amore. E così riesci a bearti anche di una passeggiata alla marina in una mattina tersa, fresca e senza traffico. Godi profondamente per una passeggiata a Roma, e per qualsiasi cosa bella lungo la tua via. Cambia il sapore delle cose e quando il tuo sguardo si imbatte in qualcuno pensi ai problemi che magari porta con se, alle sofferenze che non si mostrano ma che sono ben presenti, il dolore e la sofferenza sono cose comuni a tutti. Ed allora sparisce la boria di chi giudica le persone senza conoscerle profondamente, senza provare capirle. Si è bellissimo rinascere!
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Che belli!!!! che forza i ragazzi di Piazza048!!!! Onorato di lottare insieme a Zio Luciano
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Grazie, Luciano.
Sono passati cinque anni, e molte cose sono accadute da quando hai scritto la tua storia. Grazie a una di quelle combinazioni del caso – a quel gioco, a quella “primavera che non bussa ma entra sicura” , come diceva Faber, i nostri ragazzi si sono conosciuti. E quindi anche noi.
Grazie per la tua pazienza, per la tua gentilezza.
Grazie per i piatti che ci hai cucinato.
Grazie per questa testimonianza, sai che è importante avere delle storie raccontate da chi lo sa fare… un po’ come ai tempi di quando noi umani, raccolti intorno al fuoco ad ascoltare i saggi, quelli che avevano vissuto già il Mondo, si riceveva il viatico per il viaggio.
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