Ri-conoscersi comunità per incontrare il futuro.

di PIERO ALESSI ♦

Fabrizio Barbaranelli, di recente, in un suo ragionamento, pubblicato sul blog “Spazio Libero”, a proposito della città che ha conosciuto in anni passati, non ci propone una  “operazione nostalgia”. Non si tratta di coltivare il malinconico, e per certi versi doloroso, rimpianto per ciò che è stato o peggio perdersi ad immaginare una riedizione di ciò che fu. Il mondo ci è cambiato sotto i piedi in maniera tumultuosa e di questo non si può che prendere atto, con quello che segue. Anche la nostra città si è trasformata dal punto di vista economico, sociale e culturale. Non poteva essere diversamente. Nessuno vuole o può interrompere mutazioni che hanno radici profonde. Il nucleo, se ho colto in maniera corretta l’ invito che è stato rivolto, è attivare una riflessione collettiva attorno ad un aspetto che forse non era scontato che venisse alterato dalle trasformazioni. Il tema, mi pare sia ancora quello del senso di comunità e di appartenenza ad uno stile di vita, a comportamenti, costume, storia, passione civile e politica, cultura e tradizioni. Molti di questi aspetti sono stati travolti da modalità di convivenza civile che hanno privilegiano l’individuo e che spesso hanno parlato di modernità, ma con un atteggiamento di pericoloso disprezzo per la storia e per tutto ciò che ci ha preceduto. Questo vento ha scosso e strapazzato tutti i luoghi nei quali era solita svolgersi la vita sociale della città. Le strade , ove si praticavano per lo più i giochi dei bambini ma anche i primi approcci sentimentali o sensuali degli adulti; i bar , come luoghi di socializzazione e  non solo banconi dove si consumano in modo frettoloso caffè sempre più alla buona; la scuola; le parrocchie; le sezioni di partito; le associazioni sindacali e di volontariato; i circoli sportivi e i campetti di calcio fino alle goliardie giovanili.  Ora è evidente che in ciascun ambiente è stato ed è diverso il modo di interagire, comunicare e svolgere la propria vita, ma questo giustifica una perdita di senso comune? Giustifica una perdita di memoria? Giustifica relazioni umane che sfiorano la barbarie? Giustifica un terreno di scontro politico sempre più violento e distante dagli interessi generali? Mi astengo dallo svolgere un mestiere che non mi appartiene. Posso solo limitarmi a richiamare, a titolo di esempio, alcuni episodi e situazioni che mi hanno visto testimone e partecipe, da quello specifico osservatorio che è stato il sindacato. Voglio in questa sede trascurare, per rinviare ad altri momenti, la grande vertenzialità e i più significativi passaggi da una visione ad un’altra. La vertenza Alto Lazio: la sua parziale correzione prima e la sua successiva e sostanziale revisione. Voglio parlare di altro, di aspetti meno impegnativi, e in particolare di come fosse possibile, ma anche piuttosto naturale, che vertenze di piccoli gruppi o persino individuali finissero per diventare occasioni per battaglie generali che coinvolgevano settori, nella loro totalità, o addirittura l’intera città. Un licenziamento era per sé stesso, se vissuto come una ingiustizia, un episodio che trascendeva lo specifico e diveniva occasione per una rivendicazione di giustizia sui posti di lavoro, per mostrare ad una imprenditoria locale, chiusa nei propri privilegi, largamente assistita da provvidenze pubbliche, che avrebbe dovuto fare i conti con una forza organizzata che non abbandonava neppure i singoli alle eventuali prevaricazioni. Può apparire incredibile, se guardiamo alle cose con occhiali contemporanei, ma sono stati proclamati persino scioperi generali di settore o cittadini per atti che avevano colpito solo singoli lavoratori o piccoli gruppi. Io, che ho vissuto quella stagione, sono stato testimone di una solidarietà straordinaria. Non erano tempi facili per le persone che vivevano del proprio lavoro; per loro i tempi non sono mai stati facili. Eppure non ho mai sentito, di fronte alla esigenza di stringersi attorno ad uno o più compagni di lavoro, esprimere perplessità o ostilità per ragioni che avevano a che vedere con i , pur pesanti, costi dello sciopero. Talvolta, sempre pagando un prezzo salato, si scendeva in piazza per rivendicare la dignità di un territorio sofferente.. Dunque, se vogliamo, si trattava di rivendicazioni più politiche, più di prospettiva, che non incidevano, nell’immediato, sulle condizioni materiali delle persone. Ciò nonostante si rimane impressionati a ripercorrere con la memoria la straordinaria partecipazione alle manifestazioni sindacali di quegli anni ormai lontani. Ecco che, anche in quelle manifestazioni, si poteva cogliere un senso di comunità. Ora, passi per un mondo che cambia; passi per l’affermarsi di scienze informatiche che hanno stravolto il modo stesso di comunicare e interagire; passi per modalità di intervento attivo del sindacato, che possono essere diverse dalla tradizione; ma, tutto ciò, cosa ha a che vedere con i fili che dovrebbero  tenere assieme una comunità di persone? Perché sembrano essersi sfilacciati quei legami solidaristici che  spingevano a sostenere chi ti era vicino e si orientavano verso la piena consapevolezza di  una idea di comunità?

Non vi è in questo smarrimento una responsabilità che interroga ciascuno di noi; una responsabilità che in primo luogo dovrebbe sentire sulle proprie spalle chi amministra la città?

Gli amministratori sono solo persone alle quali, temporaneamente, si è attribuito un ruolo guida, non vendicatori che con la sciabola separano i buoni dai cattivi. Al contrario, spetta loro in primo luogo, cucire , unire, favorire il dialogo, difendere la memoria, condividere idee di sviluppo piuttosto che ricercare motivi di competizione e scontro. Solo un faticoso lavoro condiviso  può ricondurre verso un riscoperto orgoglio di appartenenza ad una comunità, ad una città che vorremmo più vivibile, più gradevole e più felice. Purtroppo , mentre scrivo, le cose si muovono in tutt’altra direzione. Inspiegabile, ad esempio, il rifiuto del Sindaco a partecipare alle discussioni in programma presso il “Festival dell’Unità”. Altro che costruire condizioni di dialogo e di comprensione reciproca all’interno della comunità. E’ l’esatto contrario. Si vuole affermare che vi è una parte della città, quella che ha prevalso nelle ultime elezioni amministrative,  che è  inconciliabile con l’altra; persino migliore dell’altra. Questo principio che si vorrebbe  imporre è ingiusto, contrario ai principi che regolano la nostra vita democratica, ma soprattutto dannoso per ogni speranza di rilancio di Civitavecchia.

Ciò detto occorre, infine, a dispetto delle oggettive difficoltà, che coloro animati da un sincero senso civico continuino ad adoperarsi per contrastare una situazione di degrado generale (quindi non solo urbano) e sperare che  appartenga ai più la voglia di ri-conoscersi comunità, spezzando un cerchio di odio e di incomprensione, che non potrà che produrre un sempre più rapido declino sociale, culturale ed economico.

PIERO ALESSI