Lo Stato sociale o welfare (II parte)
di PAOLA ANGELONI ♦
Se si leggono con occhiali particolari i messaggi di Facebook o dei Social più in generale, emergono con conflittualità opinioni che riguardano il dare sostanza ai diritti sociali.
A tali messaggi vi si può rispondere solo con la decisione democratica e la dialettica politica. Ma quali istituzioni hanno oggi il ruolo fondamentale per questi confronti? Tutti i regimi politici hanno sempre concentrato la loro attenzione sul diritto di proprietà. L’economista Piketty propone la soluzione: non smantellare lo Stato sociale, ma modernizzarlo.
Solo un accenno al sistema pensionistico, conquista del XX secolo. Esso si fonda sul principio di ripartizione, le parole chiave sono: contributi, salari e pagamenti dove tutto viene immediatamente versato. Il sistema si fonda sul principio di solidarietà intergenerazionale, nel senso che i contributi per le pensioni di domani saranno più alti se crescerà la massa salariale. Se questa crescesse oggi, si potrebbe investire nelle scuole e nelle università dei propri figli e incoraggiare la natalità. Ecco il modello multisolidale in una società “ virtuosa e armoniosa “, con le generazioni legate le une alle altre. Il sistema pensionistico a ripartizione nasce nella metà del XX secolo, quando la crescita demografica era alta ed alta la produttività. Oggi le cose vanno in modo diverso.
Un cenno al settore fondante dello Stato sociale: le istituzioni scolastiche ed il ruolo delle stesse nel produrre mobilità sociale. Anche negli USA non vi è stato nulla di eccezionale nella riduzione delle disuguaglianze in relazione ai redditi da lavoro se tale situazione viene comparata a quella dell’Europa “classista”. Le università richiedono spese elevate ed il reddito dei genitori è un indicatore perfetto delle possibilità di accesso all’Università.
La meritocrazia non ha ridotto le disuguaglianze, poiché rimane una selezione fondata sul merito e inoltre vi è assenza di trasparenza nelle procedure di selezione nell’inserimento scolastico. Secondo Piketty, la disuguaglianza di accesso all’insegnamento superiore è un problema tra i più importanti cui lo Stato sociale del XXI secolo dovrà far fronte. L’accesso non è gratuito, anche se in Italia le quote sono più accessibili. Ma non è la gratuità a risolvere i problemi! Vi sono, infatti, sottili meccanismi di selezione sociale che riguardano la spesa pubblica e a chi è riservata. Bisogna intenderci bene, dato che non è semplice raggiungere un’uguaglianza effettiva delle opportunità.
Nello Stato sociale ideale è tutto da inventare! Ora un finanziamento pubblico elevato non è ottenibile nell’attuale situazione, ma sarebbe ottenibile stabilire un quadro di trasparenza e, come insegnante, posso dire che il diritto del più capace è un’invenzione della meritocrazia.
Non è facile applicare la categoria economica pura alla realtà sociale, tuttavia si possono chiedere conferme per l’analisi e per delineare prospettive alle scienze sociali, alla sociologia, all’antropologia ed alla storia.
All’inizio ho detto “economia politica” per sottolineare la prospettiva politica e morale nel definire lo Stato sociale. Il tema investe infatti il ruolo dello Stato, delle Regioni e delle amministrazioni locali in relazione alle politiche pubbliche. Noi cittadini dobbiamo avere come riferimento l’utopia positiva di una società ideale, ma partendo dalle questioni concrete che riguardano il territorio.
Civitavecchia, città post industriale ma non post moderna, assume un ruolo di paradigma: parla e, utilizzando il social per eccellenza, “straparla”:
– di ospedale, asili, costi di medicine, sanità, scuola e università perché tali strutture sono viste prive di efficacia;
– di crescita massiccia del prelievo fiscale che aggrava la mancata crescita dei redditi e il mancato potere di acquisto per beni di consumo e di servizi;
– di bisogni e investimenti prioritari nell’energia pulita e nello sviluppo sostenibile di cui la nostra città è assolutamente deficitaria.
Tale realtà denunciata sui social è visibile per chi la vive e suscita giudizi netti e spesso contraddittori. Ciascuno, dal proprio punto di osservazione, matura la propria ragione su ciò che è giusto e ciò che non lo è. I dati sono soggettivi, psicologici, ma nessuno può porli in secondo piano.
Per questo sarebbe prioritaria un’analisi economica e dei processi economici in campo. Allora Marx è ancora valido per il XXI secolo: quando il tasso della produttività è debole i “patrimoni“ assumono un valore incalcolabile e destabilizzante. Aggiungiamo, nella situazione attuale, il capitalismo finanziario impazzito, le frodi, la Svizzera, le società a partecipazione, i paradisi fiscali.
Secondo l’economista Piketty, il nodo è rappresentato dalla palese mancanza di trasparenza finanziaria. Non si tratta pertanto di un’assenza dello Stato, quanto di operare un cambiamento in politica fiscale. Lo strumento essenziale sarebbe un’imposta progressiva sul capitale patrimoniale ed un altissimo grado di trasparenza della finanza internazionale, una “utopia” per regolare in primo luogo il capitalismo privato.
Dal 2010 si assiste a un grande ritorno del capitale privato o, meglio, all’affermazione di un nuovo capitalismo patrimoniale. Tale evoluzione strutturale si spiega sostanzialmente con due fattori:
– a partire dagli anni settanta-ottanta si è verificato un processo di privatizzazione e di graduale trasferimento della ricchezza pubblica verso la ricchezza privata;
– sul lungo termine, il prezzo degli attivi immobiliari e azionari è stato in netta accelerazione nel periodo 1980-1990, grazie ad un contesto politico complessivamente molto favorevole ai patrimoni privati, rispetto ai decenni dell’immediato dopoguerra.
Spicca il caso dell’Italia. Negli anni ’70 il patrimonio pubblico netto era leggermente positivo, per poi diventare ampiamente negativo a partire dagli anni ’80 e ’90.
Tra il 1970 e il 2010 la ricchezza pubblica è diminuita, mentre i patrimoni privati sono ampiamente cresciuti, con dati tutt’altro che trascurabili. Complessivamente il patrimonio italiano è sì cresciuto in misura notevole, ma molto meno del patrimonio privato, la cui straordinaria crescita è in parte ingannevole, perché corrisponde a un debito crescente dell’intero Paese. Sia chiaro pertanto che gli italiani – o quantomeno la media degli italiani – anziché pagare le tasse per equilibrare i bilanci pubblici, hanno prestato denaro al governo acquistando buoni del Tesoro, accrescendo così il loro patrimonio privato senza accrescere il patrimonio nazionale. In definitiva, alla diminuzione del patrimonio pubblico corrisponde in larga misura la crescita dei patrimoni privati.
E’ lo stesso processo, in forma attenuata, che troviamo in forma estrema in Russia e nell’est europeo tra gli anni ottanta e i successivi venti anni. Si pensi ai rapidi e spettacolari arricchimenti dei patrimoni privati degli oligarchi russi.
Dunque, l’economista Piketty indica per la riduzione delle disuguaglianze un’ imposta annua e permanente, con tassi contenuti, da prelevare sullo stock del capitale europeo. Considerato l’altissimo livello raggiunto dai patrimoni privati europei all’inizio del XXI secolo, un’imposta del tipo suindicato potrebbe procurare entrate non trascurabili proprio per lo Stato sociale (istruzione, sanità e pensioni).
Tale imposta non sarebbe sufficiente a finanziare lo Stato sociale, ma potrebbe procurare una integrazione alle risorse di cui ogni paese dell’Unione Europea ha bisogno. Tuttavia i rischi di evasione rimangono alti se non si adotta un sistema di controlli che comprenda la trasmissione automatica dei dati bancari applicabile anche ai paesi fuori dall’Unione. All’applicazione di un’imposta sulla ricchezza non si oppone alcun vincolo tecnico, ma occorre essenzialmente una volontà politica da parte delle istituzioni europee, in particolare della Banca centrale europea.
Quello odierno è un capitalismo patrimoniale globalizzato. Certo, imposte sul capitale fondiario esistono dalla notte dei tempi, ma sono imposte tese a garantire il diritto di proprietà e non di redistribuzione delle ricchezze. In questa logica rientrano anche le Rivoluzioni inglese, americana e francese.
Si giunge così al problema di strettissima attualità, quello dell’unificazione europea e del ruolo che hanno nel sistema le multinazionali, che pagano sulle società importi fiscali irrisori.
Tutto ciò sembra utopico? Non più della pretesa di creare una moneta senza Stato – commenta l’economista Piketty . Questa conclusione è vicina a quella di D. Rodrik, secondo la quale, nel XXI secolo, lo Stato-nazione, la democrazia e la globalizzazione costituiscono un trinomio instabile (uno dei tre termini deve abdicare, almeno in parte, a favore degli altri due).
Sarebbe necessario che nel pubblico dibattito sullo Stato sociale fosse presente la struttura economica di fondo, “un’ economia di mercato e di proprietà privata, potenzialmente minacciosa per le nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociale sui quali esse si fondano “.
Allora il capitale umano, di cui si è parlato nel Blog, è una forma di illusione?
Secondo una visione diffusa i processi di crescita economica si caratterizzano con il fatto che all’interno del processo produttivo, le abilità, il grado di qualificazione, insomma il capitale umano sia sempre più importante. Ed è così. E’ stata la crescita della forza del capitale umano a permettere di ridurre la quota di capitale terriero, immobiliare e finanziario.
Secondo Piketty tale interpretazione è corretta, si tratta di una trasformazione fondamentale. Ma occorre prudenza: lo stock di capitale immobiliare, industriale e finanziario è cresciuto in ugual misura rispetto al capitale umano, vale a dire enormemente. A volte sembra che il capitale sia scomparso, che si sia passati come per incanto da una civiltà fondata sul capitale e sui patrimoni ereditari a una civiltà fondata sul capitale umano e sul merito. Piketty mette in guardia contro i facili ottimismi: il capitale non è scomparso e non esiste alcuna “forza naturale “ o “mano invisibile” in grado di ridurre necessariamente l’importanza del capitale privato e dei redditi da questo derivati.
Un’ultima considerazione sullo Stato sociale, presa in prestito dalle scienze umane. Il filosofo Remo Bodei, in “Limite”, pone il problema di sapere se siamo sufficientemente “vaccinati”contro nuove catastrofi politiche o se ci illudiamo che queste non accadano grazie alla relativa sicurezza offerta dai regimi democratici.
Cosa potrebbe succedere se si perdesse il controllo delle crisi economico finanziarie, se il ruolo del welfare si indebolisse a tal punto da non garantire in misura sufficiente il mantenimento dei ceti più disagiati o se si fosse colpiti da un generale e drastico impoverimento? Il richiamo alla solidarietà, senza regolare il capitalismo privato, può tenere a bada gli egoismi?
Oppure può consolarci il lungo percorso di una “decrescita felice “ rinunciando al superfluo ma a favore di vincoli di amicizia, al gusto della lentezza, al piacere della conoscenza come afferma Latouche?
E’ difficile- insiste Bodei- giudicare l’intrinseca consistenza della solidarietà e della decrescita, piuttosto dovremmo essere capaci di affrontare la prova dell’inevitabile distribuzione della ricchezza e del potere.
di PAOLA ANGELONI
Debbo dire che ho un certo imbarazzo, l’imbarazzo che deriva dalla quantità di concetti per i quali vale la citazione e la discussione, presenti in quantità industriale in questa seconda parte.
Cerco di limitare il mio intervento ad un paio di considerazioni. A me pare sbagliato affrontare il problema del welfare sul piano “fiscale”. Ovvero, mi parrebbe come se si volesse affrontare la malattia combattendone i sintomi invece di combatterne le cause. Posto che il welfare ha bisogno di risorse, cosa indubitabile, bisognerebbe capire queste risorse da dove debbano giungere. Prendiamo atto che, nell’era attuale, la ricchezza prodotta, ovvero i guadagni fiscalmente attaccabili, sono in gran parte provenienti da attività finanziaria, anche questo penso sia indubbio. Da questo assunto ne deriva che lo “stato sociale” derivi dalla capacità dello stato di prelevare dalle rendite finanziarie risorse sufficienti per il pubblico servizio.
Messa così viene all’occhio una contraddizione non da poco, ovvero, mentre da una parte la “speculazione” o meglio la “redditività” finanziaria/immobiliare viene spesso e volentieri tutelata in quanto considerata, a torto o a ragione, oramai il motore della economia, dall’altra c’è la necessità di recuperare da questa una buona dose di danaro per finanziare lo stato sociale. In questo un ruolo non irrilevante lo hanno le multinazionali difficilmente aggredibili sul piano fiscale come detto nell’articolo. E’ palese quindi la difficoltà di assicurare uno stato sociale efficace e nel contempo assicurare ampia redditualità alle poste finanziarie.
Potrebbe anche funzionare in un paese “ricco” e virtuoso, improbabile invece in un paese nel quale regna l’evasione fiscale, condoni e quant’altro che deve, fra l’altro, confrontarsi con realtà assai opache, difficilmente riconoscibili e delineabili come lo sono le poste finanziarie.
Penso che, fatte queste considerazioni, sarebbe meglio, piuttosto che ridistribuire una ricchezza impalpabile, cambiare il modo di fare ricchezza. In altre parole auspico che si passi, finalmente, da un mondo che produce plusvalore col semplice movimento di masse di danaro, ad un mondo che produca la sua ricchezza producendo beni e servizi.
Se consideriamo che la ricchezza da “finanza” si accumula, per la sua stessa essenza, nelle casse di pochi, mentre la ricchezza da lavoro, per beni o servizi, è invece una ricchezza distribuita fra molti, ne scende in automatico l’idea che la necessità di stato sociale tende a diminuire essendo tutti “meno poveri”. C’è da considerare che la ricchezza così prodotta è decisamente più visibile, controllabile e gestibile. In altre parole il prelievo fiscale sarebbe più certo e sicuro, trasferendo certezza e sicurezza nello stato sociale.
In tutto questo il capitalismo continuerebbe a fare il suo mestiere, ma sarebbe un mestiere “alla luce del sole” e non all’ombra delle borse. Come possa, lo stato sociale, essere affidaile nel tempo, quando dipende dai mercati azionari spesso e volentieri traversati da tsunami di dimensioni catastrofiche, è una domanda che vorrei porre ai fanatici del “libero mercato finanziario”.
Una “decrescita felice” che riduca drasticamente la ricchezza prodotta dalle speculazioni e dalla produzione di beni inutili, ovvero del consumo per il consumo, mi sento di auspicarla perchè sarebbe il segno di un cambiamento dalla società della speculazione alla società dei servizi. In buona sostanza preferisco la crescita dei servizi alla crescita del reddito se realizzato a scapito dei primi.
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Credo che il problema della decrescita prima o poi diventerà cogente perchè il problema prima di essere fiscale o finanziario è di sostenibilità ambientale.La produzione di CO2 ha raggiunto livelli tali per i quali si rende assolutamente necessario un ripensamento del modello di sviluppo. Appena avró il tempo voglio proprio affrontare questo discorso con un articolo che chiama in campo quello che in urbanistica si chiama bigness
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Sono portato a interpretare la decrescita felice come una provocazione intellettuale e poco più. Credo piuttosto che si debba pensare a un altro modello di crescita, questo sì “felice”, se liberato dalle logiche del neoliberismo e del pensiero unico del turbocapitalismo.
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Io la vedo dal punto di vista dell’urbanistica. I cambiamenti climatici in atto ci pongono davanti al problema; la puoi chiamare decrescita o la puoi chiamare crescita felice alla fine le contromisure da prendere sono le stesse
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In effetti il concetto di “decrescita felice” non è proprio chiarissimo, non saprei dire se il suo significato sia stato in qualche modo codificato, credo però si possa tranquillamente riferirsi al fatto che la “crescita” intesa come aumento di PIL e quindi della produzione, consumi e redditività non rappresenta più l’aspettativa di “felicità”, per tutta una serie di aspetti, inquinamento compreso. Non so se adottare un modello di sviluppo che sposti l’asse dalla produzione di beni e consumo degli stessi alla produzione di servizi e godimento degli stessi possa definirsi “decrescita felice”. Definizione a parte, tornando al topic del welfare bisognerebbe capire se questo sia migliorabile solo con un cambiamento nel modello di sviluppo o se ci si possa attendere una ripresa dello stato sociale mantenendo questo modello. Mi sono già espresso su questo ed aggiungerei che anche a livello locale vi sono scelte che possono indirizzare il progetto cittadino da una parte o dall’altra, pur nel indubbio condizionamento derivante dall’essere parte di società superiori che si esprimono nella città metropolitana, Regione, stato Europa ecc….
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Per commentare questo secondo post “super denso” ci vorrebbe una settimana, tanta è la quantità di concetti che sono messi in campo.
Credo che l’economia dia gli strumenti per ottenere il modello societario che si vuole e che è plasmato sulle proprie concezioni dei rapporti sociali. Non esiste un modello “universalmente valido”, esiste un blocco sociale che si vuole tutelare, esiste un modello mutuale (o solidale) in conflitto con quello competitivo. Il welfare cozza con il modello capitalistico, almeno negli ultimi 3 modelli conosciuti (dei 4 storici che si conoscono), perché la massimizzazione dei profitti non contempla la solidarietà sociale. Siamo in regime di “austerità espansiva” che per definizione immette il welfare nel mercato e secondo la legge “della mano invisibile” si ottiene crescita e occupazione.
Beh, gli effetti di questa scelta (le crisi, gli shock, le recessioni sono tutte scelte) politica sono sotto gli occhi di tutti.
Sulla decrescita felice, non mi pronuncio, è una barzelletta che in economia non esiste.
Torno al primo post con maggiori dettagli.
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L’ accento di fondo del mio articolo è sulle disuguaglianze evidenti nello Stato sociale, ridotto a puro assistenzialismo. I dati ISTAT di oggi , relativi al 2015, confermano: quattro milioni e seicentomila in povertà assoluta. In primo luogo è la salute che detiene le più grandi deprivazioni. Ne soffrono nuclei familiari con quattro componenti e le famiglie di stranieri. Vi è povertà assoluta quando il capofamiglia è operaio o anziano.Dati incredibili anche sulla soglia di povertà relativa. Allora, un pensierino sul capitale patrimoniale, quello nascosto nelle banche e non trasparente, si potrebbe fare?
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Certo che si può fare, si possono fare tutti i pensieri possibili sul capitale nascosto nelle banche, e aggiungerei non solo. Direi, per essere più precisi, che si potrebbe ragionare sui capitali “nascosti” in linea generale. Che l’accumulo sia il segno dello squilibrio sociale è evidente ai più, forse anche a coloro che sostengono che la libertà di accumulare sia essenziale e addirittura “garanzia” dello stato libero, o meglio della libertà dei cittadini di uno stato, appunto, libero.
Molti di coloro che sostengono questa tesi della libertà di accumulo, non tengono altrettanto in considerazione la Costituzione laddove predica il benessere dei cittadini e la contribuzione secondo capacità.
Ora data per buona l’informazione statistica che ci avvisa che gli accumuli sono sempre di meno ma sempre più grandi, se ne ricava come disatteso il dettato costituzionale, poichè maggiori sono le distanze fra ricchi e poveri e sempre minori sono le “capacità” dello stato di intervenire essendo in eterna necessità di ricorrere al debito.
Se quindi questo accumulo di ricchezza non è il segno di un paese in stato di benessere, allora è evidente che la politica, perchè è lei demandata a questo, debba intervenire cambiando le regole del gioco in modo dicendo a chiare lettere che la libertà di accumulare non è più permessa, è in contrasto, con gli interessi della Nazione, intesa come insieme di uomini.
E quindi vanno prese le opportunamente forti decisioni utili a questo cambiamento. Non si tratta, aggiungo, di leve fiscali, ma di modelli di sviluppo che si realizzano con tanti più o meno piccolli interventi “mirati”, ad esempio quello di separare le banche d’affari da quelle del risparmio, la prima cosa che mi è venuta in mente. Per separare investimenti e risparmio dai giochi di borsa.
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