Qualche riflessione sul Brexit 

di NICOLA PORRO ♦

 

Mi pare che i dati sul referendum britannico siano di solare evidenza. Il Paese si è spaccato a metà. Per l’Europa i più scolarizzati, gli abitanti delle città maggiori, i giovani (massicciamente) e due aree strategiche come la Scozia (una vera Nazione senza Stato, non un prodotto di fiction come la Padania) e l’Irlanda del Nord, in cui la Brexit sta già riaprendo un conflitto che si credeva superato. Dall’altra la vecchia Inghilterra “Britain first”, le campagne, i meno giovani e i meno istruiti. Più una classe operaia anziana e deprofessionalizzata, carica di un risentimento sociale confusamente rivolto all’innovazione tecnologica e all’immigrazione. Risentimenti e paure che nemmeno le gloriose trade union hanno ancora la voglia o la capacità di contrastare e che i demagoghi del Brexit hanno facilmente orientato a proprio favore. Rinvenire tratti progressisti nel fronte pro Brexit è del resto alta acrobazia anche per i vecchi operaisti. Individuare nella Ue il capro espiatorio di tutti i mali del mondo globalizzato è infatti la strategia più semplice e più efficace a disposizione dei populisti di ogni genere. La crisi, la stretta finanziaria, la tormentata e spesso infelice gestione di una macchina politica a elevatissimo livello di complessità hanno spianato un’autostrada ai  leader populisti. L’inglese Farage – il leader anti-Ue alleato dei Cinquestelle nel Parlamento europeo -, la Le Pen, i Salvini di casa nostra e diversi altri, puntano a egemonizzare il consenso di tutti quelli che si considerano i perdenti della globalizzazione. Ci provano, non senza successo, spacciandone una rappresentazione apocalittica, caricaturale e risentita che costituisce la sola narrazione politica di cui è capace il neo-populismo europeo.

Cameron ha lanciato il sasso ed è sprofondato nello stagno con tutte le scarpe. La sua campagna pro Ue era d’altronde obiettivamente difficile da gestire anche nel rapporto con i partner internazionali. Esempio: sappiamo tutti che la crisi del progetto europeo è stata esasperata dallo sconsiderato allargamento della Comunità ai Paesi ex socialisti nei primi anni del nuovo secolo. Una scelta politica epocale che meritava i tempi giusti e un governo comunitario all’altezza della sfida. Si trattava non di allargare uno spazio commerciale bensì di inventare un’Europa che non c’era mai stata, integrando e mettendo in sinergia economie, culture politiche, mentalità e sistemi istituzionali molto diversi. Furono la Germania e la Gran Bretagna a premere per un’integrazione a passo di corsa e senza garanzie. La prima per consolidare la propria leadership, a danno di Francia e Italia, su uno scacchiere geopolitico bruscamente spostato a Est. La seconda intuendo che l’allargamento avrebbe depotenziato l’integrazione europea e rinviato sine die l’inevitabile resa dei conti fra partner comunitari. Decisi a non entrare nell’euro, ma a mantenere tutti i benefici del mercato unico senza pagarne i costi, i governi britannici si fecero paladini di un’avventura che minava ruolo politico e coesione sociale dell’Unione.

Qualche arruffapopolo ne trae una considerazione insidiosa: perché allora non usciamo anche noi dall’area della moneta unica? Grande trovata davvero. Ve l’immaginate la povera lira nella tormenta del crack di Wall Street nel 2008 o alla prese con la globalizzazione finanziaria dei mercati? Ci siamo dimenticati di quando, erano gli anni Novanta, ci cavavamo dai guai con le svalutazioni competitive della nostra moneta? Ancora oggi paghiamo con un debito pubblico che tarpa le ali alla nostra economia quelle scelte scellerate. I greci avevano inventato un’altra soluzione: aderire all’euro e usarlo come fosse la vecchia dracma. Le conseguenze sono state dolorose per tutti e drammatiche per loro, ma sono esperienze che ci trasmettono una lezione. Piaccia o non piaccia, questo sistema mondo (a me, per inciso, non è che piaccia granché) non lo comprendiamo e tantomeno lo governiamo con la furbizia oppure recintando gli orticelli. Tantomeno guardando la storia con lo specchietto retrovisore.

I britannici hanno fatto esattamente questo. Si sono bevuti la favoletta consolatoria dei cattivi europei, si sono chiusi nella nostalgia di un Impero che non tornerà, non hanno resistito a quel richiamo dell’insularità che appartiene alla loro cultura. Un voto di pancia che condannerà un grande Paese a un ruolo periferico nel mondo globale e lo esporrà a subire spinte secessionistiche al proprio interno.

Una riflessione di più ampio respiro accresce l’amarezza. Perché la Gran Bretagna postcoloniale è stata una protagonista – e sempre dalla parte giusta del fronte – di quella guerra civile europea che è cominciata nel 1914 e si è conclusa solo nel 1945. Lasciando milioni di vittime, causando devastazioni immense e generando i peggiori totalitarismi della storia del continente. Dalla fine della guerra a oggi l’Europa occidentale – non le aree periferiche come i Balcani o i Paesi postcomunisti ancora alle prese con le nostalgie autoritarie dell’Impero russo o con regimi di nazionalismo reazionario – ha conosciuto dopo secoli un settantennio di pace. Vogliamo sostenere che l’integrazione politica dell’Europa, malgrado errori, traversie e contraddizioni di ogni tipo, non abbia avuto alcun ruolo in questo processo? Ci siamo dimenticati di cosa significassero quelle bandiere europee agitate nelle manifestazioni dei democratici spagnoli, portoghesi, greci, baltici, ungheresi o polacchi restituiti alla libertà?

Sono convinto che un’analisi a bocce ferme della Brexit debba muovere proprio dal disincanto di quelle illusioni. Ma non può essere una risposta solo emotiva: l’Europa va rifondata, non aggiustata in qualche modo. Aggiungo una considerazione che può suonare sgradevole. La Gran Bretagna ha fatto una scelta sbagliata ma consapevole. Godeva di un regime di privilegio negato a noi e a tutti i partner europei. L’Europa, arrivati a questo punto, non può fare sconti. Se vuole salvare la sostanza del proprio progetto e non rinnegare la visione dei suoi ispiratori, non può rischiare una rincorsa distruttiva di ricatti e minacce di secessione. È meglio per tutti se si accelera la formale esclusione del Regno Unito dalla Ue aprendo subito un tavolo dei Paesi fondatori che riscriva le regole del gioco.

Una breve nota finale. Sono stato per dieci anni docente responsabile delle relazioni Erasmus della mia Facoltà. Ho accolto centinaia di studenti europei che desideravano conoscerci, studiare con noi, condividere i nostri stili di vita. E altrettanti ne ho mandati in tutti gli angoli del continente a vivere un’esperienza di vita straordinaria, che nessuno dei loro genitori aveva potuto fare. Ho visto intrecciarsi amicizie, sbocciare amori, prodursi opportunità di lavoro. Al ritorno sembrava che i loro occhi scintillassero, che le loro menti si fossero aperte, che avessero trovato un senso alla loro condizione. Tutti avevano voglia di ripartire. È questo bisogno di Europa che non dobbiamo tradire.

NICOLA PORRO